08 maggio 2018 11:17

La decisione che Donald Trump prenderà sull’accordo nucleare con l’Iran avrà ripercussioni in tutto il mondo. Ma oltre a coinvolgere i paesi della regione, pone numerose questioni in Europa.

L’equazione è (relativamente) semplice: anche se l’accordo del 2015, che porta il nome ufficiale di Joint comprehensive plan of action (Jcpoa), è stato negoziato e firmato dai “5+1”, cioè dai cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu (Cina, Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Russia) più la Germania e la Commissione europea, il suo esito dipende solo dagli americani, e in particolare dal loro presidente.

Infatti Trump dovrà decidere se prolungare o meno la fine delle sanzioni contro l’Iran come previsto dallo Jcpoa, una decisione unilaterale che di fatto sancirà la fine dell’accordo o la sua sopravvivenza.

Già nel 2003 gli europei si erano divisi di fronte a un’altra fatidica decisione di un presidente americano, quella di invadere l’Iraq

La scadenza – e quindi le sorti dello Jcpoa – è la questione diplomatica del momento a causa delle sue enormi conseguenze, che nei prossimi anni potrebbero significare la guerra o la pace in Medio Oriente. Del resto è stata al centro delle visite a Washington di Emmanuel Macron e di Angela Merkel, due settimane fa; ha dato luogo a un attacco spettacolare da parte del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e mobilita tutte le potenze di questo mondo caotico.

L’Iran ha già annunciato che se gli Stati Uniti si ritireranno dallo Jcpoa ripristinando le sanzioni, ricomincerà immediatamente il programma di ricerca nucleare. Nel contesto di estrema tensione regionale, dopo le prime scaramucce di un possibile confronto tra Israele e l’Iran in territorio siriano e altrove, uno sviluppo del genere sarebbe molto pericoloso.

Il prossimo errore strategico
Ma se Trump prenderà questa decisione, alla quale lo spingono gran parte dei suoi collaboratori decisi a farla finita con l’Iran, che cosa devono fare gli europei? Già nel 2003 si erano divisi di fronte a un’altra fatidica decisione di un presidente americano, quella di invadere l’Iraq per rovesciare il suo dittatore Saddam Hussein. Il Regno Unito, all’epoca guidato dal New labour di Tony Blair, e le nuove democrazie dell’Europa centrale e orientale, appena integrate nella Nato, avevano seguito la decisione di Washington.

La Francia di Jacques Chirac e la Germania del cancelliere Gerhard Schröder si erano invece opposte alla decisione di George W. Bush, non accettando le prove avanzate sul possesso di armi di distruzione di massa da parte dell’Iraq e temendo le conseguenze regionali di una guerra del genere.

Sappiamo tutti come è andata a finire. La guerra del 2003 è stato il più grave errore strategico compiuto dagli Stati Uniti dalla fine della guerra fredda: conflitti a ripetizione, atti di terrorismo del gruppo Stato islamico, affermazione dell’Iran e così via.

I paesi che avevano rifiutato di parteciparvi ne avevano dovuto subire le dure conseguenze politiche prima che il fallimento della strategia americana fosse riconosciuto da tutti.

A quanto pare gli Stati Uniti di Trump si apprestano a compiere un nuovo errore strategico, mossi da un accecamento ideologico e da alleanze strategiche azzardate. Anche se le situazioni non sono del tutto paragonabili, in particolare perché gli Stati Uniti non si propongono di attaccare militarmente l’Iran, la destabilizzazione regionale e mondiale rischia di avere conseguenze simili.

La delusione dell’Iran
Gli europei sono direttamente coinvolti in questa situazione, prima di tutto perché tre grandi paesi dell’Ue hanno negoziato e firmato l’accordo – la Germania, la Francia e il Regno Unito – e anche a causa del ruolo della Commissione in rappresentanza del continente europeo.

Ma lo sono anche perché, come ha dimostrato la guerra in Siria, la destabilizzazione del Medio Oriente ha delle ricadute dirette, fisiche, sul continente europeo. E infine perché gli Stati Uniti hanno l’abitudine di imporre la loro legge al resto del mondo. Infatti ripristinando le sanzioni contro l’Iran, vieteranno di fatto agli europei di commerciare con Teheran, come hanno fatto in passato prima della firma dello Jcpoa.

In effetti la ragione per la quale l’Iran ha finito per rinunciare a sviluppare l’arma nucleare è stata proprio quella dei “dividendi della pace”, cioè la possibilità di sviluppare la sua economia, di sostenere una popolazione che non ce la fa più come hanno mostrato le manifestazioni all’inizio del 2018. Ma negli ultimi due anni questi “dividendi” si sono molto ridotti a causa dei blocchi e delle reticenze americane, e di fatto scompariranno completamente in caso di decisione negativa di Trump.

Ci sarebbe la possibilità di vedere gli europei usare finalmente la loro capacità diplomatica collettiva, il loro peso economico e il loro ruolo

Gli europei avranno la capacità, la volontà e la coerenza necessarie per resistere al diktat americano? Il realismo politico induce a dare una risposta negativa, a causa in particolare della debolezza congenita dell’Europa attuale e del fatto che i paesi dell’Europa centrale e orientale continuano a essere affascinati da Washington (si veda la decisione di Praga di trasferire la sua ambasciata a Gerusalemme sull’esempio della decisione presa da Trump).

Per ora le tre principali capitali europee – Parigi, Berlino e Londra – si mostrano incredibilmente unite sulla questione iraniana, con il Regno Unito che, probabilmente irritato dalle cattive condizioni della sua “relazione speciale” con gli Stati Uniti, si mostra solidale con i suoi futuri ex alleati continentali. Ma questo non basta – o non basta più – a fare una vera diplomazia europea, soprattutto di fronte a una decisione dell’alleato americano.

Ci sarebbe tuttavia la possibilità di vedere gli europei usare finalmente la loro capacità diplomatica collettiva, il loro peso economico e il loro ruolo nella negoziazione dell’accordo, per salvare il salvabile o quanto meno per impedire l’avvio di una dinamica fatale per la regione. Macron, nonostante l’apparente complicità con Trump, ha proposto al presidente americano una via di uscita che gli permetterebbe di mostrare al suo elettorato di essere capace di mantenere le sue promesse senza distruggere tutto. Nel “nuovo accordo” in quattro punti che ha proposto in occasione della sua visita a Washington, il primo punto è proprio il mantenimento dell’accordo attuale, lo Jcpoa.

Questo aspetto è sfuggito a un primo esame della proposta, anche da parte di Teheran dove il rifiuto chiaro e netto di negoziare il programma balistico o l’influenza regionale dell’Iran ha avuto la meglio sui vantaggi che avrebbe nel salvare lo Jcpoa.

In una regione in ebollizione per il nuovo scontro che si va delineando in Siria a causa della volontà israeliana di impedire qualunque installazione stabile dell’Iran alle sue porte, del desiderio saudita di mostrare i muscoli nei confronti del nemico sciita e di altre fonti di tensioni persistenti come la questione palestinese o il periodo successivo ai jihadisti dello Stato islamico per il mondo sunnita, sarebbe comunque importante riuscire a mettere tutto sulla tavola e cercare di ridurre la tensione.

Ormai l’attenzione mondiale converge verso questo fatidico giorno. Trump ha tre opzioni: prolungare lo Jcpoa, cosa che sarebbe capita con difficoltà dal suo elettorato dopo che da mesi gli viene ripetuto che si tratta del “peggiore accordo mai negoziato”; cancellare l’accordo come gli suggeriscono il suo istinto, i suoi consiglieri e il suo alleato israeliano, con le conseguenze che sappiamo; o infine la via di mezzo suggerita dal suo “amico” Macron. Rimane ancora qualche ora agli europei per decidere se saranno semplici spettatori o protagonisti della pagina di storia che si scriverà.

(Traduzione di Andrea De Ritis)

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