11 ottobre 2019 10:12

Difendendo pubblicamente il suo intervento militare in Siria, il 10 ottobre il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha pronunciato parole sconvolgenti dirette all’Europa. “Ehi, voi dell’Unione europea, riprendetevi. Lo dico ancora una volta. Se cercherete di presentare la nostra operazione come un’invasione apriremo le porte e vi manderemo 3,6 milioni di migranti”.

La minaccia di Erdoğan è vergognosa, perché nel tentativo di mettere a tacere le critiche strumentalizza milioni di profughi siriani in fuga dalle atrocità del loro paese, brandendoli come strumento di ricatto nei confronti degli europei.

Queste parole evidenziano quale sia la caratura umana e politica di un leader che in passato si era presentato come interlocutore ragionevole e desideroso di entrare nell’Unione, ma che alla fine si è rivelato un autocrate alla ricerca di un potere illimitato.

L’accoglienza messa alla prova
Non è la prima volta che Erdoğan usa l’arma dei migranti. Dopo l’arrivo in Europa di un milione di profughi nel 2015, il presidente turco aveva infatti negoziato un accordo con Angela Merkel vendendo a caro prezzo la chiusura delle frontiere turche, fino a quel momento un punto di transito dei disperati. L’accordo era stato aspramente criticato sul piano morale, ma aveva effettivamente permesso di stabilizzare la situazione.

Le minacce di Erdoğan non possono essere prese alla leggera, tanto più che da agosto assistiamo a un aumento del numero di migranti che arrivano nell’isola greca di Lesbo provenienti dalla Turchia, attualmente circa 500 al giorno. Siamo lontani dai numeri del 2015, ma il flusso è abbastanza intenso da mettere alla prova i centri di accoglienza greci.

Erdoğan è abituato a trattare con un’Europa in posizione di debolezza e incapace di tenergli testa

Il presidente turco sa benissimo che il problema è estremamente delicato in Europa, anche perché ha osservato l’impatto elettorale dell’ondata migratoria del 2015 con l’ascesa del populismo e dell’estrema destra. Erdoğan insomma, colpisce dove sa di far male.

È abituato a trattare con un’Europa in posizione di debolezza e incapace di tenergli testa, e oggi spera che la sua minaccia possa placare le critiche degli europei nei confronti del suo intervento in Siria.

Ma esiste anche un gioco politico interno, altrettanto importante nell’equazione. La Turchia attraversa una crisi economica profonda, dovuta soprattutto alla perdita di fiducia dopo il fallito colpo di stato del 2016. Il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), partito islamico conservatore del presidente, ha incassato diverse sconfitte, perdendo anche il comune di Istanbul.

L’intervento militare in Siria arriva nel momento ideale per gettare benzina sul fuoco del nazionalismo. La folla applaude i convogli militari, i presentatori televisivi esultano vedendo le colonne di fumo oltre la frontiera e tutti i partiti si stringono intorno al presidente, fatta eccezione ovviamente per il piccolo Partito democratico dei popoli (Hdp), filocurdo.

“Di Erdoğan il popolo turco apprezza precisamente ciò che gli stranieri detestano: la sua volontà di sfidare l’occidente colpevole di aver smantellato l’impero ottomano”, spiegava l’anno scorso l’accademico Soli Özel. Erdoğan cinicamente, pensa di avere tutti gli assi in mano, proprio come nel 2015.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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