25 febbraio 2021 09:57

In futuro dovremo commemorare la giornata del 24 febbraio. Le prime dosi del vaccino anticovid sono infatti arrivate in Ghana, in Africa occidentale. Il carico non recava la bandiera di uno stato, ma faceva parte del programma Covax, nel quadro dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), dunque nel nome della comunità delle nazioni, un concetto che è sembrato piuttosto assente dall’inizio della pandemia.

Questo primo gesto simbolico, che sarà seguito dalla consegna di oltre due miliardi di dosi in Africa entro la fine dell’anno, costituisce il miglior antidoto al nazionalismo vaccinale che sembrava doversi imporre. Nelle ultime settimane abbiamo visto arrivare, in capitali accuratamente scelte, voluminosi colli avvolti in bandiere cinesi o russe, mentre gli occidentali affrontavano i loro problemi di approvvigionamento e sembravano aver dimenticato i più poveri. E in diplomazia ogni vantaggio ha il suo peso.

L’estrema polarizzazione della pandemia è un fattore costante ormai da un anno, alimentato dalla rivalità tra la Cina e gli Stati Uniti e dalla ricomposizione dei rapporti di forza nel mondo. Di conseguenza era inevitabile che l’accesso al vaccino, un elemento cruciale per uscire dalla crisi sanitaria, fosse influenzato da questo clima deleterio.

I grandi assenti
L’avvio del programma Covax segna una rottura con questa concorrenza marcatamente ideologica. Nessuno può rivendicare il programma Covax, lanciato a giugno in occasione di una videoconferenza che ha riunito l’Oms, gli europei (tra cui la Francia, la Germania e l’Italia, oltre alla Commissione), diversi paesi di tutti i continenti e le fondazioni più importanti come quella di Bill e Melinda Gates. Grandi assenti erano gli Stati Uniti di Donald Trump, che si preparavano a uscire dall’Oms. Tuttavia dopo l’avvicendamento a Washington Joe Biden ha annunciato un importante contributo finanziario per Covax e ha riportato gli Stati Uniti all’interno dell’Oms. Anche la Cina partecipa all’iniziativa, seppur modestamente.

Non sarebbe aberrante se le case farmaceutiche condividessero la proprietà intellettuale dei vaccini

La logica è quella della solidarietà con i paesi più poveri che non hanno i mezzi per prendere parte alla corsa ai vaccini prodotti nei laboratori, con la consapevolezza che la pandemia sarà superata solo quando il virus sarà sconfitto in tutto il mondo, e non solamente nei paesi ricchi.

Il vaccino, però, non è un bene pubblico. Anche se il programma Covax alimenta la speranza che il mondo possa accedere senza troppi inconvenienti al vaccino a prescindere dal livello di ricchezza, l’idea di bene pubblico finora è un vuoto slogan.
Il 24 febbraio l’Unesco invitava ancora a rendere i vaccini un bene pubblico mondiale. Ma questo implicherebbe che l’industria farmaceutica condivida la proprietà intellettuale. Non sarebbe aberrante, considerata la quantità di fondi pubblici investiti nella ricerca, ma finora non è successo.

La situazione, evidentemente, è tutt’altro che perfetta. Eppure l’avvio del programma Covax resta una buona notizia. Raramente lo scarto temporale nell’accesso a un vaccino tra i paesi poveri e quelli ricchi è stato così ridotto.
Il Ghana, che tra qualche giorno sarà seguito dalla Cosa d’Avorio, avrà a disposizione 600mila dosi del vaccino di Oxford-AstraZeneca, fabbricato negli stabilimenti indiani e finanziato dalla comunità internazionale. Non capita spesso di avere l’occasione di gioire per la globalizzazione.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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