07 aprile 2021 09:56

I grandi negoziati partono spesso da questioni apparentemente insignificanti. Il dialogo di Parigi che nel 1975 mise fine alla guerra degli Stati Uniti in Vietnam, per esempio, rimase bloccato per giorni sulla forma del tavolo. Alla conferenza di Madrid successiva alla prima guerra del Golfo, nel 1991, il problema fu stabilire come far partecipare i palestinesi senza che fossero davvero presenti.

Stavolta, dopo l’elezione di Joe Biden, il destino del nucleare iraniano dipendeva dalla possibilità di trovare un modo di parlarsi senza parlarsi. Teheran, infatti, non voleva accettare un contatto diretto prima della cancellazione delle sanzioni unilaterali imposte da Donald Trump, ma Washington non poteva permettersi di abbassare la guardia senza una minima garanzia sulle intenzioni degli iraniani.

Dopo due mesi e mezzo la diplomazia ha trovato la soluzione: dal 6 aprile l’Iran dialoga a Vienna con i firmatari attivi dell’intesa – Russia, Cina, Germania, Francia e Regno Unito, oltre alla Commissione europea – ma non con gli Stati Uniti, che si sono ritirati dall’accordo nel 2018. Gli statunitensi, infatti, si trovano in un altro luogo e ricevono aggiornamenti dai diplomatici europei che fanno la spola. In questo modo l’apparenza è salva.

La forza dell’ostilità
Questa messa in scena è resa necessaria anche dal fatto che le forze ostili alla ripresa del negoziato e soprattutto al ripristino dell’accordo del 2015 sono molto potenti. A Teheran l’ala radicale del regime non aveva apprezzato il primo accordo, e di conseguenza non vorrebbe assistere alla sua resurrezione. Perfino i negoziatori del 2015 sono sospettosi, considerando il dietrofront degli Stati Uniti sotto Trump.

A Washington i repubblicani sono contrari all’accordo a causa sia della vicinanza con le posizioni di Israele sia del sentimento di odio profondo nei confronti di Teheran, che affonda le sue radici nella crisi degli ostaggi dell’ambasciata statunitense ai tempi della rivoluzione islamica. Questo punto di vista è condiviso anche da alcuni democratici, e già nel 2015 Barack Obama aveva incontrato grandi difficoltà a far accettare l’accordo.

Biden si è impegnato a salvare l’accordo in campagna elettorale e intende mantenere la parola

A tutto questo bisogna aggiungere gli attori regionali come Israele e Arabia Saudita, alleati di Washington ma nemici giurati dell’Iran. Sono in molti, insomma, a sperare in un passo falso.

Biden, però, si è impegnato a salvare l’accordo durante la campagna elettorale e intende mantenere la parola. Anche per questo ha nominato come negoziatore Robert Marley, ex funzionario dell’amministrazione Obama e sostenitore dell’accordo, nonostante il vento di fronda a Washington.

Doppio movimento
Ma questo ancora non basta per raggiungere un accordo, perché i punti contesi sono numerosi. In un primo tempo bisognerà concordare un doppio movimento: cancellazione delle sanzioni statunitensi e ritorno alla lettera dell’accordo per l’Iran, che ha ripreso negli ultimi mesi l’arricchimento dell’uranio. L’agenzia internazionale per l’energia atomica sarebbe incaricata di far rispettare gli impegni presi.

Questa prima tappa è necessaria perché bloccherebbe la marcia inesorabile dell’Iran verso la bomba in tempi relativamente brevi. Ma non basta. Gli occidentali vogliono quello che nel gergo del negoziato si chiama “Jcpoa-plus”, ovvero l’accordo del 2015 ma allargato a nuovi ambiti, come i missili balistici e l’attivismo regionale dell’Iran.

Non siamo ancora arrivati a questo punto, ma il fatto che sia partita la prima tappa, basata su un dialogo indiretto ma comunque riallacciato, dimostra che le due parti vogliono trovare un accordo, anche se non necessariamente con le stesse motivazioni. È sufficiente per andare avanti, e non è poco.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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