21 giugno 2021 09:56

Quello del 21 giugno 2021 doveva essere il primo scrutinio veramente democratico nella storia dell’Etiopia, paese in cui sono alternati un regime feudale e terribili dittature. È stata una delle promesse di Abiy Ahmed, il primo ministro etiope, che ha ricevuto il premio Nobel per la pace nel 2019 per aver messo fine a un conflitto decennale con la vicina Eritrea.

Ma la promessa non sarà mantenuta. Ci si è messa di mezzo la guerra nel Tigrai, così come le tensioni con altri gruppi etnici dell’ex impero che non riesce a trovare un equilibrio. In più del 20 per cento delle circoscrizioni non si potrà votare normalmente, e questo compromette la regolarità dello scrutinio.

Il primo ministro etiope continua a dichiarare che le elezioni saranno “esemplari”, ma l’Unione europea, pur avendo contribuito con 20 milioni di euro all’organizzazione del voto, ha rinunciato a inviare una missione di osservatori ritenendo che non sussistano le condizioni di un’elezione regolare.

La guerra continua
La situazione nel Tigrai è il principale focolaio della crisi, che va ben oltre le elezioni. Nel novembre del 2020 il governo di Addis Abeba ha inviato l’esercito nella regione situata nel nord del paese per destituire il partito al potere, colpevole di aver sfidato il governo centrale.

Il primo ministro aveva promesso un’operazione di breve durata e si è affrettato a cantare vittoria quando l’esercito ha conquistato il capoluogo regionale, cacciando il Fronte popolare per la liberazione del Tigrai (Tplf). Ma la guerra non si è conclusa: il Tplf, che per molti anni ha dominato la politica nazionale e non aveva accettato la prova di forza di Abiy, si è ritirato nelle montagne, da dove ha cominciato ad attaccare l’esercito etiope e soprattutto quello della vicina Eritrea, chiamato in aiuto da Addis Abeba.

L’acclamato Abiy Ahmed ora deve affrontare il crollo del vecchio impero e il suo mosaico di popoli

La situazione umanitaria è catastrofica. La settimana scorsa le Nazioni Unite hanno accusato il governo di bloccare gli aiuti umanitari destinati a centinaia di migliaia di persone. Un terzo degli abitanti del Tigrai è scappato. Alcuni hanno trovato rifugio in Sudan. Le accuse di crimini di guerra hanno spinto l’Unione africana (la cui sede è ad Addis Abeba) ad aprire un’inchiesta.

Il governo federale si comporta come se nulla fosse, salvo poche eccezioni. Il problema è che il Tigrai è una zona di guerra, e in tutto il paese ci sono altri focolai di violenza. Anche gli oromo sono sotto pressione, e tra loro si sono state numerose vittime.

Abiy era stato elogiato all’inizio del suo mandato, nel 2018, per aver svuotato le carceri dai prigionieri politici, sbloccato l’economia e riequilibrato la diplomazia etiope. Ma ora deve affrontare il crollo del vecchio impero e il suo mosaico di popoli, e sta scivolando progressivamente verso un autoritarismo percepito come unico garante dell’unità nazionale.

Il nuovo Partito della prosperità, fondato da Abiy, vincerà senza dubbio le elezioni. Ma questa vittoria non basterà a cancellare gli immensi problemi dell’Etiopia, a cominciare da quello della riconciliazione nazionale, oggi molto lontana.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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