26 luglio 2021 10:15

La Cina è indicata spesso come una potenza “revisionista”: non nell’accezione del termine in voga ai tempi di Mao, con un ritorno all’ordine borghese, ma nel senso strategico, ovvero come una potenza che vuole cambiare l’ordine costituito dominato dai suoi rivali. A volte, però, anche Pechino accoglie con inquietudine cambiamenti che rischiano di esserle sfavorevoli.

L’Afghanistan rappresenta uno di questi casi. La Cina ha regolarmente criticato la presenza statunitense e quella della Nato in Afghanistan, ma oggi si preoccupa per il precipitoso ritiro militare americano e per il rischio di destabilizzazione in un paese con cui ha una frontiera in comune, seppure lunga appena 76 chilometri e situata a oltre quattromila metri di altitudine. Il confine, però, collega l’Afghanistan alla provincia cinese dello Xinjiang, già al centro dell’attenzione per la “questione uigura”.

La preoccupazione è aumentata il 14 luglio, con l’attentato che è costato la vita a nove ingegneri cinesi in viaggio a bordo di un bus nel nordest del Pakistan. Gli ingegneri stavano andando al cantiere del progetto idroelettrico di Dasu, costruito da un’azienda cinese nella provincia di Khyber Paktunkhwa, al confine con l’Afghanistan. L’attentato, che i pachistani hanno inizialmente cercato di far passare come la conseguenza di un malfunzionamento, non è stato rivendicato, ma gli analisti di Islamabad indicano due possibili “sospetti”: un gruppo armato del Belucistan pachistano (che già in passato ha attaccato gli interessi cinesi) o i taliban pachistani, jihadisti pashtun come i loro colleghi afgani.

Reazioni accese
A prescindere dall’identità dei responsabili, il momento scelto per colpire un obiettivo cinese alimenta i timori di Pechino, mentre in Afghanistan la situazione precipita. I taliban afgani sono infatti passati all’offensiva contemporaneamente alla partenza delle ultime truppe statunitensi, conquistando un gran numero di distretti e installandosi alle frontiere del paese con diversi stati vicini: il Tajikistan, l’Iran e naturalmente il Pakistan, che li sostiene sotto banco da anni.

Le reazioni a Pechino sono state molto accese. Il quotidiano del Partito comunista Global Times, radicalmente nazionalista, ha chiesto rappresaglie: “La Cina deve agire per dimostrare alle forze antigovernative in Pakistan che nonostante la distanza di migliaia di chilometri chiunque compia attacchi terroristi contro i nostri compatrioti è destinato a pagare. Quali che siano gli autori degli attacchi contro il personale e i progetti cinesi, con le loro azioni si costituiscono come nemici della Cina. La Cina sosterrà fermamente gli sforzi del governo pachistano per sterminarli”.

La vicinanza tra taliban e jihadisti uiguri alimenta l’inquietudine di Pechino

È una reazione forte e minacciosa, che tuttavia tradisce un certo nervosismo. Ma esistono altri motivi di preoccupazione. Alcuni resoconti riferiscono infatti della presenza al fianco dei taliban afgani di svariati combattenti dell’Etim, il Movimento islamico del Turkestan orientale (il nome dato dai nazionalisti uiguri alla loro regione, che i cinesi chiamano Xinjiang). L’Etim è legato ad al Qaeda, e questa vicinanza tra taliban e jihadisti uiguri alimenta l’inquietudine di Pechino considerando che verosimilmente gli islamisti controlleranno presto la frontiera afgano-cinese.

Questo contesto spiega la dichiarazione del capo della diplomazia cinese Wang Yi, che incontrando il suo collega afgano ha chiesto una soluzione politica “inclusiva” che impedisca all’Afghanistan di diventare un “focolaio di forze terroriste”. Sono parole molto simili a quelle degli statunitensi. Pechino ha criticato spesso gli Stati Uniti per aver abbandonato l’Afghanistan prima di aver trovato una soluzione stabile per il futuro del paese, e nel frattempo ha portato avanti la sua diplomazia parallela con i taliban nella speranza di costruire un rapporto pragmatico che superi le divergenze ideologiche.

Tre obiettivi a rischio
La Cina, dunque, è nella situazione paradossale di doversi preoccupare per il ritiro delle truppe americane alle sue frontiere e per l’arrivo di una forza “rivoluzionaria” alle sue porte. Va detto che negli ultimi anni, mentre la Nato garantiva (bene o male) la sicurezza, la Cina investiva in Afghanistan, soprattutto in un settore minerario dal vasto potenziale. Pechino si ritrova con tre obiettivi improvvisamente a rischio: mettere al sicuro gli investimenti in Afghanistan, evitare una minaccia di sicurezza in direzione dello Xinjiang e consolidare la sua alleanza con il Pakistan, dove sono stati investiti oltre 50 miliardi di dollari nel quadro del “corridoio economico sino-pachistano”.

La Cina, in questo quadro, può contare su uno “strumento”: l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (Sco), una struttura creata vent’anni fa insieme alla Russia con l’obiettivo iniziale di stabilizzare la regione dell’Asia centrale situata tra i due paesi. Da allora la Sco si è evoluta, aprendo ad altri paesi della regione (come partecipanti o osservatori) tra cui il Pakistan, l’India e l’Iran, altro vicino dell’Afghanistan. La Sco ha appena organizzato un vertice a Dushanbe, capitale del Tajikistan, incentrato sull’Afghanistan.

Questa sorta di “piccola Nato” è controllata sempre più da Pechino e sempre meno da Mosca, e potrebbe ricoprire un ruolo importante nel mettere in sicurezza questa regione particolarmente instabile situata al confine con la Cina. Pechino deve affrontare questi problemi stando sempre attenta a non trovarsi impantanata a sua volta nel caos afgano, che nell’ultimo secolo ha sfiancato l’impero britannico, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Ma d’altronde questo è il prezzo da pagare per diventare una superpotenza.

Traduzione di Andrea Sparacino

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