11 ottobre 2021 09:52

In Europa occidentale abbiamo la tendenza a considerare l’Europa centrale come un tutt’uno, una regione condannata a vivere in “democrazie illiberali” che hanno voltato le spalle ai valori su cui dovrebbe basarsi l’Unione europea (Ue). Ma si tratta di una tesi riduttiva, perché i paesi che formano questa regione sono attraversati da correnti contrastanti. E per alcuni è arrivato il momento di operare scelte decisive.

Due di questi paesi, la Repubblica Ceca e la Polonia, sono attualmente in bilico, e una parte del futuro dell’Ue è legata alla piega che prenderanno le cose al loro interno. In Repubblica Ceca la sconfitta elettorale a sorpresa del primo ministro, il populista Andrej Babiš, è stata seguita dal ricovero in gravi condizioni del presidente Miloš Zeman, non esattamente un liberale. A questo punto l’incertezza nel paese è totale.

In Polonia la situazione è completamente diversa. La decisione della corte costituzionale di non riconoscere il primato delle leggi comunitarie su quelle nazionali ha aperto una crisi con Bruxelles, perché rimette in causa il principio di base che garantisce l’uguaglianza tra gli stati membri. Se sarà confermata, la decisione rischia di provocare una “Polexit”, ovvero un’uscita della Polonia dall’Unione europea. La posta in gioco, insomma, è considerevole.

Il sostegno all’Ue
Guidati da partiti euroscettici, entrambi i paesi appartengono (con Ungheria e Slovacchia) al cosiddetto gruppo di Visegrád, che frena sull’integrazione europea. Ma all’interno di questi stati esistono anche correnti europeiste.

In Repubblica Ceca due coalizioni di centrodestra e liberali, favorevoli all’integrazione europea, rivendicano la vittoria elettorale e il diritto di formare insieme il prossimo governo. L’11 ottobre il primo ministro uscente dovrebbe incontrare il presidente, in ospedale. Molti sospettano che possa mettere in atto una manovra per restare al potere.

In un sondaggio l’80 per cento dei polacchi si è detto favorevole alla permanenza del paese all’interno dell’Unione

In Polonia le reazioni alla decisione della corte costituzionale, nettamente influenzata dal partito populista al potere, (il Pis, Diritto e giustizia), ha suscitato vive reazioni. La sera del 10 ottobre migliaia di manifestanti si sono riuniti sventolando le bandiere europee, mentre 26 ex giudici della corte costituzionale hanno dichiarato che la decisione va oltre le prerogative dell’alto tribunale. L’indipendenza della giustizia è uno dei grandi temi del contenzioso tra Varsavia e Bruxelles.

In un recente sondaggio l’80 per cento dei polacchi si è detto favorevole alla permanenza del paese all’interno dell’Unione. Dunque se Varsavia uscisse dal club europeo sarebbe paradossale, perché la situazione è molto diversa dalla Brexit, votata dalla popolazione in un referendum.

In ogni caso l’accumulo di punti conflitto tra la Polonia e le regole dell’Unione – dalla giustizia all’indipendenza dei mezzi d’informazione, dai diritti omosessuali all’aborto – crea un clima di rottura sempre più grave. Il governo polacco è perfettamente consapevole di avere molto da perdere. I fondi del piano di rilancio europeo che spettano a Varsavia, infatti, sono attualmente bloccati a causa della tensione tra Bruxelles e Varsavia.

Il braccio di ferro rischia di aggravarsi. L’opposizione liberale è ormai guidata dall’ex presidente del consiglio europeo ed ex primo ministro polacco Donald Tusk, che vorrebbe riconquistare la maggioranza alle prossime elezioni legislative, in programma nel 2023. Questi eventi avranno un forte peso sulla fisionomia dell’Europa di domani. La “democrazia illiberale” non è una fatalità.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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