Prima della guerra reale c’è la guerra psicologica. È precisamente ciò che sta succedendo tra l’Iran e le potenze occidentali nell’ambito della trattativa per la ripresa dell’accordo sul nucleare iraniano. In questo caso la guerra psicologica consiste nel ventilare il rischio di un conflitto in caso di fallimento del negoziato, una minaccia che non può essere presa alla leggera.

La trattativa è stata riaperta la settimana scorsa a Vienna, ma dopo il primo giro di consultazioni gli europei e gli statunitensi hanno lanciato l’allarme dichiarando che i delegati iraniani vogliono rimettere in discussione tutto ciò che era stato concordato dopo l’elezione di Joe Biden e la sua scelta di ripristinare l’accordo concluso all’epoca di Barack Obama e fatto saltare da Donald Trump. Nel frattempo a Teheran si è installato un governo più intransigente, e le discussioni della settimana scorsa sono state le prime dopo l’avvicendamento al vertice in Iran.

Il risultato è che gli avvertimenti minacciosi si moltiplicano. Il negoziato dovrebbe riprendere l’8 dicembre, ma in queste condizioni è molto difficile portarlo avanti, soprattutto considerando che nel frattempo l’Iran prosegue con il programma di arricchimento dell’uranio. L’ora della verità si avvicina.

Nuove alleanze
I messaggi degli occidentali sono sempre più minacciosi, e lo stesso vale per quelli di Israele e degli stati del golfo. Gli Stati Uniti affermano di avere “altri mezzi” a loro disposizione per impedire all’Iran di dotarsi dell’arma nucleare. Washington mantiene l’ambiguità a proposito di questi “mezzi”, ma in passato gli Stati Uniti non hanno mai esitato a ricorrere ai sabotaggi contro l’Iran attraverso gli attacchi informatici.

L’Iran si trova davanti un gran numero di avversari

Israele è stato ancora più esplicito. Il governo di Naftali Bennet è deciso quanto quello del suo predecessore Netanyahu a impedire all’Iran di raggiungere la parità nucleare con lo stato ebraico. Gli israeliani possono contare sull’appoggio dei loro nuovi alleati del golfo Persico, che si sono avvicinati a Israele in quanto preoccupati dal disimpegno relativo degli Stati Uniti. Un’alleanza che segna una svolta.

È in questo nuovo contesto che va inserita la dichiarazione rilasciata dal presidente francese Emmanuel Macron in occasione della sua visita a Dubai alla fine della scorsa settimana. Macron ha sottolineato che “è difficile trovare un accordo se i paesi del golfo, Israele e tutti i paesi preoccupati per la propria sicurezza non fanno parte della trattativa”. L’Iran si trova davanti un gran numero di avversari, insomma.

Il regime di Teheran non ha l’abitudine di cedere alle pressioni, ma esistono due incognite. La prima riguarda l’atteggiamento della Russia e soprattutto della Cina (firmatari dell’accordo del 2015) in caso di rottura. Sappiamo che Pechino si è riavvicinata a Teheran, ma finora Russia e Cina stanno partecipando al negoziato di Vienna rispettando le regole del gioco.

La seconda incognita è sul fronte interno. Da tre anni l’Iran è soffocato dalle nuove sanzioni imposte da Trump, e regolarmente il malcontento popolare esplode a causa delle condizioni di vita proibitive. Al momento c’è addirittura una carenza d’acqua. In quale misura il governo può permettersi di rifiutare un compromesso che potrebbe allentare la morsa?

Le prossime settimane saranno decisive, perché la guerra psicologica non può durare a lungo. Arriverà inevitabilmente il momento in cui i delegati si troveranno nella posizione di concludere o interrompere la trattativa. Con tutte le conseguenze che ciascuno dei due scenari comporta.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it