14 gennaio 2022 09:58

È un processo realmente storico quello che si è appena concluso a Coblenza, in Germania, con la condanna all’ergastolo per un ex colonnello siriano arrivata il 13 gennaio. La sentenza è storica perché, per la prima volta, un torturatore di alto rango ha dovuto affrontare la giustizia ed è stato condannato all’ergastolo in uno stato di diritto.

Per comprendere la portata dell’evento è utile ricordare la rivolta, inizialmente pacifica, della popolazione siriana contro la dittatura a partire dal mese di febbraio 2011. Quel conflitto ha provocato nel corso degli anni centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi e sfollati, devastando un paese intero. Negli ultimi undici anni l’impunità dei responsabili è stata totale: nessuno è mai stato giudicato e nessuno è stato indicato come colpevole della tragedia siriana.

La storia, dunque, ricorderà il nome del colonnello Anwar Raslan, ex ufficiale dei servizi segreti siriani riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità per l’omicidio di 27 persone, oltre alla tortura e lo stupro di migliaia di altri individui nel centro di detenzione di Al Khatib. Il colonnello ha gestito gli interrogatori in questa struttura dalla reputazione sinistra e 80 testimoni (compresi disertori e vittime) si sono presentati in tribunale per racontare gli orrori che si svolgevano al suo interno.

Giustizia universale
Perché Raslan è stato condannato in Germania? Per due motivi. Prima di tutto perché il colonnello ha tentato di cancellare il suo passato emigrando in Germania nel 2015 mescolandosi tra i rifugiati. Paradossalmente è stato lo stesso Raslan a rivelare la propria identità, presentando una denuncia in un commissariato di Berlino perché riteneva di essere seguito da alcuni agenti del regime di Damasco. In quel caso aveva firmato il documento con il suo grado, “colonnello”, mettendo in moto il meccanismo che ha portato alla sua condanna.

Il secondo motivo è l’introduzione nella legislazione tedesca del principio di “giurisdizione universale” che permette ai tribunali del paese di giudicare anche eventi che si sono verificati all’estero. È in nome di questo principio che la Germania ha potuto aprire una breccia nell’impunità.

I difensori dei diritti umani esultano. Il 13 gennaio il direttore della ong Human rights watch, Kenneth Roth, si è illuminato in viso mentre stava partecipando a una conferenza stampa per presentare il suo rapporto annuale. Ricevuta la notizia della condanna, Roth ha interrotto il suo intervento e ha dichiarato: “È un fatto veramente storico”.

Questo primo passo della giustizia non cambia nulla nell’immediato per la Siria, un paese che non è ancora uscito da undici anni di conflitto e distruzione, ma dimostra che l’idea di giustizia non è morta, anche se le circostanze non permettono di ottenerla all’interno dei confini del paese.

La situazione della Siria resta estremamente complessa. Ancora saldamente in sella grazie all’appoggio russo, il regime di Bashar al Assad non è l’unico ad aver commesso crimini. Tutti gli attori della tragedia dovranno rispondere delle loro azioni. Tuttavia il governo ha una responsabilità particolare per aver chiuso la porta, nel sangue, a un movimento che aveva mosso i primi passi in modo pacifico il 16 febbraio 2011 a Daraa, nel sud del paese.

All’epoca si respirava l’euforia delle rivoluzioni in Tunisia ed Egitto, e alcuni giovani siriani avevano scritto sui muri della loro scuola “Sta arrivando il tuo turno, dottore”, rivolgendosi ad Assad, che è un oftalmologo. Sappiamo come è andata a finire, tra spargimenti di sangue e impunità. Fino a quando, il 13 gennaio a Coblenza, una sentenza ha preso le parti di tutte le vittime dimenticate di questa guerra sporca che non è ancora finita.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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