17 ottobre 2022 10:01

La prigione di Evin, a Teheran, è l’equivalente della Bastiglia di un tempo in Francia. Si tratta di un penitenziario dalla sinistra reputazione dove ai tempi dello scià erano incarcerati gli oppositori e dove oggi sono rinchiusi i dissidenti della Repubblica islamica.

La sera del 15 ottobre una spessa colonna di fumo si è alzata sopra la struttura mentre le truppe dei Guardiani della rivoluzione convergevano verso il carcere, nella zona nord della capitale iraniana. Fino a notte fonda si sono sentiti spari. Gli abitanti di Teheran hanno trattenuto il respiro: tutti conoscono qualcuno, da vicino o alla lontana, che fa parte dei 15mila detenuti. Anche le ambasciate straniere hanno osservato la situazione con ansia, a cominciare da quella francese. Diversi cittadini francesi sono infatti imprigionati nel penitenziario.

Le autorità iraniane accusano un gruppo di “teppisti” di aver dato fuoco ad alcune postazioni di confezionamento dove lavoravano i detenuti e comunicano che quattro persone hanno perso la vita intossicate dal fumo. I detenuti feriti sono decine. Ma la “Bastiglia di Teheran” non è caduta e al momento l’ordine regna di nuovo a Evin.

Incredibile audacia
In ogni caso non possiamo sottovalutare la forza simbolica di questa prigione, il cui nome è sinonimo di dittatura e resistenza, oggi come ieri. A Evin si uccide e si tortura. I ladri convivono con i prigionieri politici e negli ultimi mesi anche con i manifestanti arrestati mentre partecipavano al vasto movimento di protesta ancora in corso.

L’incidente del 15 ottobre è particolarmente significativo perché si iscrive in questo movimento senza precedenti, nato dalla morte di una giovane donna, Mahsa Amini, lo scorso 16 settembre mentre si trovava in custodia della polizia morale.

Le proteste sono sempre più massicce, ma non hanno ancora la portata della “rivoluzione verde”

Da un mese il movimento – avviato e sostenuto da donne spesso molto giovani ma a cui partecipano anche molti uomini – continua a crescere. I filmati che ci arrivano nonostante le interruzioni del collegamento a internet mostrano gesti individuali di incredibile audacia, dalle ragazze che sfilano in pubblico con i capelli al vento alle centinaia di persone che scandiscono slogan come “morte a Khamenei” (la guida suprema) o “donne, vita, libertà”.

Quali risultati può ottenere il movimento? Questa è la domanda che tutti si pongono. La repressione è spietata, con quasi 200 vittime soprattutto nella regione curda dell’Iran, da cui proveniva Mahsa Amini. Ma il sangue non ha scoraggiato le manifestanti, perfettamente consapevoli di non potersi aspettare alcuna clemenza dal regime.

Le proteste stanno diventando sempre più massicce, ma al momento non hanno ancora la portata della “rivoluzione verde” del 2009 o delle ribellioni del 2019, due movimenti di massa che il regime ha stroncato duramente.

La guida suprema ha accusato gli Stati Uniti e Israele di alimentare le proteste, una tesi assurda considerando che tutti, in Iran, sanno benissimo cosa ha scatenato l’ondata di collera. Ma questa internazionalizzazione dei problemi, in un momento in cui l’accordo sul nucleare con gli Stati Uniti sembra allontanarsi e l’Iran sostiene la Russia in Ucraina con l’invio di droni kamikaze dalla dubbia efficacia, permette di giustificare la repressione.

Resta una generazione encomiabile che chiede la libertà, tutta la libertà. Forse non la otterrà rapidamente, ma sa che il tempo è dalla sua parte e il futuro le appartiene.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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