C’è un passato che non passa mai. Il 28 maggio la Namibia, ex colonia tedesca nell’Africa australe, commemora per la prima volta un genocidio commesso più di 120 anni fa.
La storia è testarda, e lo dimostra il fatto che il ricordo di questo genocidio, ignorato a lungo e soppiantato nella memoria da altri fatti crudeli, non è mai completamente scomparso. Quattro anni fa la Germania ha ammesso le proprie responsabilità in quello che è considerato il primo genocidio del ventesimo secolo. Ancora oggi Berlino negozia i risarcimenti.
Per fare chiarezza dobbiamo tornare alla fine dell’ottocento, ai tempi della spartizione del continente africano tra le potenze europee. La Germania, all’epoca, si era assicurata una piccola fetta della torta, che avrebbe perso alla fine della prima guerra mondiale. In seguito il territorio che è oggi la Namibia, all’epoca Africa del Sudovest, fu affidato all’amministrazione del Sudafrica, che lo controllò fino alla fine della guerra fredda. Nel 1990 la Namibia è diventata indipendente, in netto ritardo rispetto al resto dell’Africa.
Nel 1885 il governatore tedesco del territorio si chiamava Heinrich Göring ed era un uomo che la storia ricorda soprattutto come il padre di Hermann Göring, uno dei principali leader nazisti. Un tempo mi è capitato di passare per Göringstrasse, nella capitale Windhoek, dedicata appunto a Heinrich. Da tempo la strada ha cambiato nome.
Heinrich Göring poteva contare su pochi uomini. Alle prese con una forte resistenza da parte delle popolazioni locali, fu costretto a rifugiarsi dai britannici. Per vendicare quell’umiliazione la Germania decise d’inviare un corpo armato comandato dal generale Lothar von Trotha, di sinistra memoria.
Von Trotha mise in atto una repressione spietata contro gli herero, colpevoli di essersi ribellati. Agli herero, accerchiati, non fu lasciata altra scelta se non quella di fuggire nel deserto del Kalahari, dove le pozze a cui attingere l’acqua erano state avvelenate dai tedeschi. Il generale ordinò inoltre alle sue truppe di sparare senza pietà, uccidendo l’80 per cento degli herero, ovvero circa 60mila persone, comprese donne e bambini. In seguito von Trotha fece lo stesso con la popolazione di etnia nama. Quei massacri su vasta scala furono documentati dai britannici presenti in Sudafrica, e dunque oggi costituiscono fatti incontestabili.
Ma perché il ricordo del genocidio riemerge solo ora? Il novecento è stato molto amaro per i namibiani. Il Sudafrica, infatti, ha imposto al paese le leggi discriminatorie dell’apartheid e ha combattuto i guerriglieri dell’Organizzazione popolare dell’Africa del Sudovest (Swapo), tuttora al potere a Windhoek.
Oggi la Namibia sta facendo i conti con tutte le sfumature della sua storia. L’attuale presidente Netumbo Nandi-Ndaitwah ha parlato dell’inizio “di un processo nazionale di guarigione”, a cui la Germania ha deciso di collaborare.
Questa storia ha un valore universale. Ovunque, nel mondo, constatiamo quanto sia difficile fare passi avanti senza riconciliarsi con la memoria, anche a rischio di favorire le strumentalizzazioni. La Francia si porta appresso la sua buona dose di ricordi dolorosi in Africa. Il mese scorso il presidente Emmanuel Macron ha formato una commissione di storici in occasione del suo soggiorno in Madagascar, incaricandola di studiare un massacro commesso nel 1947.
Non è una “tirannia del pentimento”, come l’hanno definita alcuni, ma l’unico strumento utile a creare rapporti più giusti in questo nuovo mondo.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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