07 dicembre 2017 10:07

Nonostante la sua drammaticità, la sua importanza e l’acceso dibattito che alimenta, la decisione presa dal governo statunitense di riconoscere formalmente Gerusalemme come capitale di Israele e probabilmente spostare l’ambasciata da Tel Aviv deve essere analizzata nel contesto più ampio del processo decisionale di Washington in merito al Medio Oriente.

Sono convinto che la faccenda di Gerusalemme sia per gli Stati Uniti più il sintomo di un retaggio politico esistente da tempo che una singola mossa provocatoria capace di generare nuove realtà. È importante capirlo, perché questo conferma qualcosa che è ormai chiaro dall’inizio degli anni settanta: per Washington i paesi arabi fanno parte della regione più sacrificabile del mondo e possono essere trattati con disprezzo in eterno.

La mia visita a Washington e le discussioni che ho avuto con gli analisti che seguono da vicino il Medio Oriente mi hanno convinto che, per decifrare la politica e gli obiettivi degli Stati Uniti nella regione, è necessario prendere coscienza di cinque aspetti critici di ciò che il governo statunitense fa e dice in Medio Oriente.

  • La permanente inconsistenza e imprecisione e i frequenti cambiamenti nelle dichiarazioni politiche all’interno delle diverse agenzie di governo su argomenti come la Siria, lo scontro tra il Qatar e i paesi del Golfo, la questione israelo-palestinese, eccetera.
  • I tweet presidenziali su questioni di politica estera che non si sa se trattare come direttive politiche o solo come strambe sfuriate emotive di una mente politicamente incapace, iperegoista e spesso infantile.
  • Le diverse azioni militari e diplomatiche degli Stati Uniti sul campo – Siria, Iraq, Yemen, Egito e altri paesi – che sono molto più significative di qualsiasi discorso o tweet.
  • L’incertezza riguardo all’obiettivo delle politiche mediorientali di Trump, se mirino ad aumentare il benessere e la sicurezza nazionale degli statunitensi o invece rispondano solo alla volontà di soddisfare una parte dell’elettorato indispensabile per il suo mandato e gli interessi israeliani (ricchi finanziatori, nazionalisti sionisti di destra, fondamentalisti evangelici e tutta una gamma di estremisti che sostengono gli autocrati arabi più di quanto sostengano la dignità umana, la vera stabilità o il governo democratico).
  • Il personale che il presidente Trump ha incaricato di gestire le sue politiche mediorientali, a cominciare dalla squadra che si occupa della questione israelo-palestinese, composta da persone che non hanno esperienza, dominata dal suo stupido genero Jared Kushner e da altri sostenitori degli interessi e degli insediamenti israeliani e decisa a sostenere la “Gerusalemme unificata” sotto il controllo israeliano e altre posizioni dello stato ebraico anziché mediare difendendo la parità di diritti tra arabi e israeliani proteggendo al contempo gli interessi americani.

Se riusciamo a comprendere queste dinamiche fondamentali possiamo renderci conto di cosa stiano tentando di fare gli Stati Uniti in Medio Oriente sotto la guida del presidente Trump.

La decisione di spostare l’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, dove l’area araba, Gerusalemme Est, è occupata dagli israeliani dal 1967, potrebbe essere una scelta simbolica, fatta per soddisfare i fanatici filosionisti e i sostenitori degli insediamenti a cui Trump pare tanto affezionato, e continuare nel frattempo la politica americana basata sull’evitare azioni unilaterali a Gerusalemme fino a quando lo status della città sarà concordato attraverso il dialogo tra israeliani e palestinesi. Lo scopriremo questa settimana.

In questi giorni circolano molte affascinanti opinioni sull’argomento. Tra le più utili c’è l’analisi corredata di dati del dottor Shibley Telhami della University of Maryland e del Brookings Institution che raccomando a chiunque sia interessato.

La mia personale conclusione sul comportamento di Washington su Gerusalemme e sulle altre questioni in sospeso nella regione è la forte sensazione che gli Stati Uniti di Trump abbiano una politica per “i paesi arabi” e un’altra politica, separata, per le altre problematiche nella regione e oltre, come l’energia e i flussi di investimenti, il commercio e l’acquisto di armi prodotte negli Stati Uniti, la lotta contro il terrorismo e la gestione dell’Iran.

Per visualizzare questo contenuto, accetta i cookie di tipo marketing.

La nuova annunciata posizione di Gerusalemme conferma qualcosa che è evidente da decenni: il mondo arabo è diventato la prima regione informalmente accettata come sacrificabile.

I paesi arabi possono sprofondare nella guerra civile, negli scontri settari, nella distruzione delle città, nei massicci flussi di disperati, nella devastazione dell’economia e nella distruzione ambientale senza alcuna reazione di rilievo da parte degli Stati Uniti, perché questi paesi non hanno alcuna importanza per il benessere degli americani.

Per gli Stati Uniti, le questioni importanti che coinvolgono gli arabi sono la sicurezza di Israele, la protezione degli autocrati arabi, il mantenimento delle esportazioni globali di energia e la lotta al terrorismo.

Questi obiettivi sembrano più o meno raggiunti. Tutto il resto, tutto ciò che riguarda i 400 milioni di persone che vivono nel mondo arabo – posti di lavoro, alloggi, assistenza sanitaria, istruzione, dignità umana, opportunità, sicurezza, diritti umani e nazionali – sembra non avere alcun rilievo per i politici americani.

È per questo che Washington può prendere le sue decisioni su Gerusalemme basandosi unicamente sulla volontà di soddisfare Israele e le forze filoisraeliane che ha a cuore, ignorando nel frattempo il diritto internazionale, i diritti e i sentimenti dei palestinesi e l’opinione di miliardi di cristiani, musulmani ed ebrei di tutto il mondo che vorrebbero vedere una Gerusalemme pacificata e condivisa.

Il motivo per cui la politica americana si basa sul disprezzo per il sacrificabile popolo e la sacrificabile società araba è che per decenni i leader politici arabi non sono riusciti a garantire la sicurezza e la prosperità nella regione né una voce rispettata nel mondo. Vorrei che le prove ci portassero a una conclusione più positiva, ma se queste prove esistono devono essere rinchiuse in una cassaforte da qualche parte, molto lontano da Gerusalemme.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it