31 ottobre 2021 09:03

Quella dei romanzi proibiti in America Latina è una vecchia storia e risale ai tempi del colonialismo, quando l’inquisizione aveva il vezzo di mettere all’indice, nelle sue liste nere, “romanzi narranti storie vane o profane, come quelli di Amadigi e altri di tale fattura, perché è un esercizio dannoso per gli indios e non è bene né che se ne occupino né che leggano”.

Le menzogne delle vite romanzate, le esagerazioni e i raggiri erano dannosi per la fede e per la retta condotta dei sudditi del regno. E, nei porti, la mano dei doganieri era svelta nel ritirare i libri pieni di imbrogli, una sorte che accomunò il Don Chisciotte e il Lazarillo de Tormes.

Tuttavia, proibire la lettura è sempre stato il modo migliore per stimolare la curiosità, trasformandola in un atto di sfida e, di conseguenza, di libertà. I libri vietati dai censori beffavano i controlli nascosti dentro barili di vino e casse di pancetta o mascherati con finte copertine. Circolavano anche in volumi ricopiati a mano. E non solo i romanzi con le loro perniciose fantasie, ma anche i libri sovversivi scritti dai pensatori illuministi a mano a mano che in tutta l’America si accendevano i fuochi dei movimenti di liberazione. Ormai il Don Chisciotte era stato soppiantato dalla Nuova Eloisa di Jean-Jacques Rousseau.

Quest’ansia burocratica di proibire i libri diventò parte delle politiche di controllo messe in atto dalle tirannie che cominciarono a susseguirsi a imitazione dei governi repubblicani, il cui nemico giurato numero uno era rappresentato dalle tipografie che avevano macchine giudicate infernali, capaci di fabbricare libri incendiari contro l’ordine pubblico, la morale, le buone maniere o tutto ciò che si discostava dal pensiero ufficiale. Non fare circolare le idee in un paese era un modo per congelare il tempo.

Richiesta insolita
Ma con il novecento non tutte le dittature furono così sensibili ai libri, a partire da quelle che O. Henry, esiliato a Trujillo, in Honduras, dove scrisse il suo romanzo Cabbages and kings, definì “repubbliche delle banane”. Al generale guatemalteco Jorge Ubico, all’honduregno Tiburcio Carías e a Somoza importavano molto di più i giornali rispetto ai libri, che avevano sempre tirature esigue ed erano pubblicati dagli stessi autori. Il vecchio Somoza non proibiva i libri in Nicaragua, un paese quasi privo di librerie, ma inviava i suoi fanatici militanti – le camisas azules che lo veneravano come un Mussolini dei Tropici – a spaccare a randellate i torchi dei giornali nemici e a disseminare per strada i caratteri sciolti delle casse tipografiche.

Suo figlio Anastasio non era da meno. Negli ultimi mesi della sua dittatura, quando ormai era in preda alla disperazione, fece saltare in aria la sede del giornale nicaraguense La Prensa. Invece la sua lista di libri proibiti si limitava a quelli che diffondevano il marxismo. Tuttavia i suoi agenti doganali non erano molto avveduti, visto che lasciavano passare senza esaminarne il contenuto libri come La sacra famiglia di Friedrich Engels e Karl Marx, perché credevano fosse di stampo religioso, o il Capitale, che immaginavo essere una lode al sistema e inoffensivo in quanto troppo voluminoso.

Quando, nel 1970, la Editorial Universitaria Centroamericana (educa) pubblicò in Costa Rica Sandino di Neill Macaulay, una ricerca basata sugli archivi della marina di Annapolis, fu inviato a Managua un carico con cinquemila copie che venne fermato alla dogana. Il classico di Gregorio Selser, La guerriglia contro i marines. Sandino, generale di uomini liberi (Feltrinelli 1972), circolava clandestinamente nel paese.

Il libro di Macaulay fu portato a Somoza dal direttore delle dogane perché decidesse cosa farne. L’uomo gli diede una rapida occhiata e glielo rese. “Questo non riguarda me”, gli disse “ma mio padre”. Le cinquemila copie furono vendute in meno di una settimana, un record per un paese con così pochi lettori e una scarsa offerta di letture.

Tutto questo per raccontarvi la storia di Tongolele no sabía bailar, il mio romanzo proibito in Nicaragua. La casa editrice Alfaguara ha inviato dal Messico un primo carico aereo mentre ne arrivavano altri via terra. Di colpo, il processo per disimballare gli scatoloni ha rallentato, con la scusa che mancavano alcuni dati sui documenti di viaggio. Poi il direttore delle dogane ha chiesto che fosse presentato un compendio del contenuto.

Una richiesta insolita, da cui si capiva che il carico sarebbe stato trattenuto per sempre nei magazzini, e che non avremmo mai ottenuto nessuna autorizzazione. Era il primo libro proibito nella storia contemporanea del Nicaragua. Non so se, proprio come capitato con Somoza, anche alla coppia ora al potere qualche ossequioso funzionario abbia portato il libro perché lo valutasse o se uno dei due l’abbia letto. Questo resterà nell’alone di mistero che avvolge sempre i libri che non si possono e non si devono leggere.

Ma in Nicaragua in migliaia hanno letto la versione elettronica del mio romanzo proibito, che passa di schermo in schermo, proprio come succedeva in passato con i barili di vino e le casse di pancetta per il contrabbando delle idee e delle invenzioni, e con le copie mimeografate del passato.

A Malmö, in Svezia, è stata aperta una biblioteca dei libri censurati, la Dawit Isaak, intitolata allo scrittore dichiarato traditore e detenuto per molti anni e senza processo in Eritrea. Contiene dai Versi satanici di Salman Rushdie, perseguitato dal regime teocratico dell’Iran, ai libri della giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič, premio Nobel per la letteratura. A Tallinn, la capitale dell’Estonia, esiste anche il museo dei libri proibiti, creato per “preservare libri che sono stati proibiti, censurati o bruciati e per raccontare al pubblico la loro storia”.

Quindi due lunghi viaggi attendono l’ispettore Morales e il corteo di personaggi di Tongolele no sabía bailar, viaggi alla ricerca del loro meritatissimo posto sugli scaffali di quelle biblioteche che rappresentano lo spirito della libertà.

(Traduzione di Sara Cavarero)

Questo articolo è stato pubblicato su El Faro.

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