27 settembre 2017 15:44

Ben e io siamo rimasti sorpresi qualche settimana fa, leggendo un tweet inaspettato del rapper americano Tyler, The Creator che diceva di stare ascoltando il nostro primo singolo, Night and day, una cover indie minimalista dello standard jazz di Cole Porter, incisa addirittura nel 1982. Al tweet è seguita un’intervista in cui raccontava di essere stato sul punto di chiedermi di cantare in un brano del suo nuovo album: “Uno dei miei pezzi preferiti in assoluto è Night and day, adoro quel suono… Avrei voluto Tracey Thorn in November, dal momento che la parte vocale iniziale era un riferimento a lei, ma poi non se n’è fatto più niente”

Dico che siamo rimasti sorpresi, ma poi ho ascoltato il pezzo e ho capito cosa intendeva: il primo verso è affidato a una voce femminile sommessamente malinconica. Avrei potuto cantarlo io, avrebbe funzionato.

Territori nuovi e fantastici
Comunque, il momento in cui gli opposti musicali si incontrano è sempre magico. Le canzoni sono un mezzo per esprimersi, ma anche per entrare in rapporto con gli altri, per questo ne abbiamo così bisogno. Si tratta di cogliere i collegamenti tra i generi, ascoltare gli echi che attraversano il tempo e lo spazio, fare incontrare canzoni, cantanti e ascoltatori.

Quando sei stato remixato un’infinità di volte come è successo a me – consegnandoti ogni volta a un artista diverso senza sapere cosa avrebbe fatto di te – è impossibile non sentirsi elettrizzati, soprattutto se a trasportarti in territori nuovi e fantastici sono Todd Terry o Underworld, Ada o Dillinja.

Penso a tutte le partecipazioni e le collaborazioni che ho fatto nel corso degli anni, da Paul Weller ai Massive Attack, da Tevo Howard ai Go-Betweens. Una volta era considerata una cosa insolita, mentre oggi è talmente la norma che è raro trovare una canzone senza una voce ospite, un featuring. E questa è una buona cosa. Mi piace quando un musicista esce dalla sua band, dalla scatola in cui è stato chiuso, scrollandosi di dosso l’etichetta che gli hanno appiccicato sulla schiena.

Stasera sono venuta a sentire Jens Lekman, al Koko a Camden. Negli anni settanta, quando era il Music Machine, ci ho visto i Swell Maps, mentre negli anni ottanta era il Camden Place dove ho visto Prince. Jens è un po’ come me: un po’ bedsit e un po’ disco queen. Da una parte è un menestrello con l’ukulele, dall’altra il musicista che campiona Ralph MacDonald, The Stylistics e Charles Mingus. Il suo ultimo album è un misto di atmosfere dance e introspezione, e forse è per questo che abbiamo lavorato così tante volte insieme.

Contrappunto giovanile
Nel 2009 ha inciso una versione vagamente funebre della canzone dei Magnetic Fields, Yeah, oh yeah! – una ballata di Stephin Merritt, che racconta in chiave comico-grottesca un omicidio in una stanza d’albergo – con accompagnamento di chitarra e omnichord. Poi ha cantato con me nel pezzo di Lee Hazlewood Come on home to me, per il mio album Love and its opposite. In quello stesso album c’è una canzone che si intitola Oh, the divorces!, in cui ho subdolamente usato Jens e le sue canzoni come contrappunto giovanile alla mia visione più matura e disincantata dell’amore e del romanticismo: “Oh Jens, oh Jens, your songs seem to look through a different lens / You’re still so young / love ends just as easy as it’s begun / Now there’s kids to tell, and legal bills, and custody…” (Oh, Jens, le tue canzoni sembrano guardare le cose da una prospettiva diversa / Sei ancora così giovane / L’amore finisce con la stessa facilità con cui è cominciato / Ora ci sono i figli, e le spese legali e la custodia).

Ogni collaborazione ti cambia un po’, ti regala sempre qualcosa di nuovo

Jens ha restituito il complimento citandomi in un verso della sua canzone Become someone else’s: “What Tracey sang about me was true / It all depends what lens you’re looking through, maybe / But all I know of love I learned from you, Tracey” (Quello che Tracey ha detto di me è vero / Dipende dalla prospettiva da cui guardi le cose, forse / Ma tutto quello che so dell’amore l’ho imparato da te, Tracey). E non è finita qui.

Nel 2016 ho cantato con lui un duetto intitolato Hotwire the ferris wheel, in cui interpretiamo una coppia che una sera decide di “fare qualcosa di illegale” e si introduce abusivamente in un luna park per fare un giro sulla ruota panoramica. Anche qui, cantiamo di canzoni: “I say, ‘If you’re gonna write a song about this then please don’t make it a sad song’” (“Io dico ‘Se scriverai una canzone su questa sera, per favore non scriverla triste”).

Da sette anni Jens e io usiamo le canzoni per parlare dello scrivere canzoni. Guardandolo sul palco stasera, penso che ogni collaborazione ti cambia un po’: ti regala sempre qualcosa di nuovo, una prospettiva leggermente diversa, una boccata d’aria fresca.

(Traduzione di Diana Corsini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Statesman.

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