13 aprile 2016 16:51

Microchimera, microchimerico, microchimerismo: in un colpo solo queste tre parole sono cadute sotto gli occhi di quanti hanno letto in un numero di Internazionale (1140 del 12 febbraio 2016, pagine 54-56) un articolo di Andy Ridgway, lecturer di comunicazione della scienza nell’università del West England (Bristol) e collaboratore di quotidiani e periodici britannici.

Per la maggior parte di lettrici e lettori, tolte eventualmente le persone che studiano genetica e biologia, è altamente probabile che l’incontro con queste parole sia stato il primo. Resterà l’unico o queste parole in un prossimo futuro rimbalzeranno spesso nel nostro parlare e scrivere? Vanno già incluse in un dizionario generale della lingua o è meglio lasciarle solo nei dizionari specializzati di biologia e simili o, meglio ancora, nell’immenso deposito di parecchi milioni di parole che si usano soltanto raramente in scritti e ambienti di alta specializzazione?

Richiamiamo i fatti essenziali. Negli anni settanta, nel sangue di alcune donne fu scoperta l’inattesa presenza di rare cellule con il cromosoma maschile Y. Negli anni seguenti la scoperta si è ripetuta e ampliata: cellule maschili sono state trovate in diversi tessuti di organismi femminili umani e murini, cioè, come direbbero Paperino e Topolino, topeschi.

Con sorpresa si dovette constatare che in questi casi l’organismo femminile non era fatto di cellule tutte omogenee, nate da uno stesso zigote, ma includeva e fondeva in sé cellule che, dato il cromosoma Y, provenivano da un organismo maschile, dunque certamente diverso. Le donne erano state incinte e avevano avuto da poco un figlio maschio e quindi l’organismo diverso doveva essere quello del figlio. Si capì da allora che durante la gravidanza non solo la madre passa nutrimento e cellule al bimbo o bimba nascente, ma può avvenire anche il contrario, cellule del feto superano i filtri normalmente operanti, quelli della placenta, e vanno a installarsi nell’organismo materno, come hanno spiegato a Ridgway diversi studiosi e studiose che ha intervistato.

La bizzarria di queste cellule non sta solo nella natura geneticamente estranea a quella dell’organismo in cui si installano, ma, come hanno mostrato ricerche sui topi, sta anche nella loro mutevole adattabilità. Installate nell’organismo materno pare che possano poi trasformarsi, a seconda delle necessità, in cellule cerebrali o epatiche o cardiache. E non basta: dalla madre ospitante possono poi passare ad altri successivi figli e figlie. Gli organismi di arrivo sono dunque un mosaico imprevedibile di materiali genetici eterogenei. In anni recenti, che si cercherà più oltre di determinare, a queste cellule geneticamente non pertinenti all’organismo ospitante è stato dato il nome di microchimere.

La fortuna di micro- non è limitata all’italiano. Nel greco moderno micro­ ha un uso perfino più vivace

A tutta prima la parola ha un aspetto relativamente familiare. Per un parlante italiano, ma anche di qualunque altra lingua europea moderna, micro- è un primo elemento di composto abbastanza noto. Certamente solo alcuni composti sono relativamente popolari, come microfilm, microrganismo, microscopico, microspia, mentre molti invece sono tecnici e marginali come microchirottero o microcita. Tuttavia il dizionario in rete di Internazionale, come altri, è costretto, per dir così, a registrarne tantissimi: nel nostro dizionario sono oltre centosettanta. Tutti questi micro-, guidati da quelli che appaiono nelle tre o quattro parole più note, fanno massa nella comune conoscenza linguistica e dunque un po’ tutti capiamo e sappiamo che micro- più o meno vuol dire piccolo.

Non pochi capiscono in più che micro- fa parte del nostro greco quotidiano, quel greco che usiamo anche se non lo abbiamo studiato a scuola perché nelle lingue moderne le sue antiche parole sono servite e servono a formare nei linguaggi tecnici innumerevoli parole composte che in parte ricadono anche nell’uso comune.

La fortuna di micro- non è limitata all’italiano. Nel greco moderno micro­ ha un uso perfino più vivace. Si unisce non solo a parole tecniche per dar luogo a composti d’uso specialistico, come avviene nelle altre lingue europee, ma è di casa e si compone anche con parole comuni. Il greco moderno, su questo punto, continua il greco classico e antico da cui abbiamo tratto micro- in italiano e nelle altre lingue europee moderne. Insomma, micro- nel senso di “piccolo” si può ritenere ben noto a chi parla le lingue europee. E dunque le microchimere saranno delle “piccole chimere”.

Anche chimera è una parola relativamente nota. È nota però soprattutto in una accezione, quella che nel dizionario in rete troviamo al secondo posto:

2. CO fig., fantasticheria, sogno irrealizzabile o privo di qualsiasi rapporto con la realtà: si è perso dietro sogni e chimere, inseguire una chimera

Delle altre accezioni della parola questa numerata con 2 è la più presente. Ci aiuta a capirlo un fatto strutturale: l’aggettivo derivato chimerico vuol dire “fantastico, utopistico, irrealizzabile” e si rifà dunque proprio a questa accezione. Invece lascia in ombra o ignora sia l’accezione 1:

1. TS mitol. nella mitologia greco-romana, mostro favoloso con la testa e il corpo di leone, una seconda testa di capra sulla schiena e la coda di serpente | TS arald. figura derivata dal mostro mitologico ma con testa di donna, petto e zampe posteriori d’aquila, zampe anteriori di leone e coda di serpente

sia le accezioni 3 e 4:

3. TS biol. individuo costituito da cellule di due diverse uova fecondate unite accidentalmente o artificialmente a scopo sperimentale o derivante da un embrione in cui sono stati inseriti cellule o tessuti di un organismo diverso

4. TS ittiol. pesce cartilagineo del genere Chimera | con iniz. maiusc., genere della famiglia dei Chimeridi

Dunque microchimera potrebbe ben significare “piccola fantasticheria, piccolo sogno irrealizzabile”. Il sistema linguistico italiano potrebbe ammettere un significato del genere, ma l’uso normale non pare raccogliere questa possibilità, che resta dunque tra le potenzialità inattuate della lingua.

La parola microchimera è parola nata nei laboratori scientifici per riferirsi non a fantasticherie, ma a entità biologiche un tempo impreviste oggi accertate e reali. Tuttavia la cosa continua a porre qualche problema. La parola ha evidentemente a che fare con l’accezione 3 di chimera, l’accezione biologica. Se leggiamo con attenzione l’accezione 3 potremmo concludere, dunque, che microchimera designa un piccolo “individuo costituito di due diverse uova eccetera”. Ma non è così. La parola non si riferisce a un organismo composito, alla donna o alla topolina in cui si è installata una cellula maschile, non vuol dire “piccola femmina che ospita cellule di altro zigote”, una donna o una topolina particolarmente piccole, ma si riferisce alla stessa cellula maschile che in sé non è composita.

È invece essa, in sé non composita, che rende composito l’organismo femminile in cui va a insediarsi. Il lessicografo che costruisce i dizionari per fornire aiuto a chi incontra una parola e vuole orientarsi sul suo senso, deve tener conto di ciò e può anche accontentarsi per costruire una voce di dizionario. Ma il lessicologo o il linguista che cerca di ricostruire in che modo si amplia o restringe il significato delle parole e che, se può, offre qualche lume al lessicografo, si trova dinanzi a un problema.

Tra chimera nell’accezione 3, cioè chimera come organismo composito, e (micro)chimera come cellula per sé nient’affatto composita che, però, con la sua presenza determina l’eterogeneità dell’organismo femminile in cui va a stabilirsi, c’è un evidente slittamento di senso, apparentemente ingiustificato. Come mai una cellula che non è in sé una chimera viene detta (micro)chimera? La ragione sta nella storia degli usi di tutto il gruppo di parole legate a chimera e, anzitutto, nella storia di questa stessa parola.

Chimera ha continuato a vivere sì come mostro mitologico, ma è l’unica figura il cui nome è stato scelto come parola indicante l’irreale e fantastico per eccellenza

In italiano la parola chimera è apparsa, nell’accezione numero 1, già in testi del quattordicesimo secolo e, più precisamente, nel 1304 in una predica dell’Avventuale (o Quaresimale) di fra Giordano da Pisa. La parola risale con evidenza al vocabolo latino chimaera e questo a sua volta al vocabolo del greco antico khímaira che di solito si traduce “capra”. La traduzione va però precisata. In greco antico la capra veniva chiamata in generale aíks (il genitivo era aigós). Invece, khímaira serviva a indicare un particolare tipo di capra, la capretta o il capretto di meno d’un anno che aveva vissuto solo un inverno. Questo è suggerito anche dall’etimologia: khímaira è legata etimologicamente a kheimón, l’equivalente greco del latino hiems “inverno”, e indicava dunque la capretta “vernina”.

Questo valore particolare è ben chiaro fin dai più antichi testi in cui troviamo la parola, i poemi omerici e la Teogonia di Esiodo. Ma negli stessi antichi versi in cui la parola appare nel senso di “capra, capretta” la troviamo immediatamente usata anche per indicare un essere mitologico: Khímaira, Chimera. Nell’Iliade Chimera, usata come nome proprio, è evocata perché lei che nessuno domina e vince deve essere uccisa da Bellerofonte per ordine divino, un ordine scritto, ineludibile. Omero la descrive: davanti ha una testa di leone, ha il corpo di khímaira “capra, capretta”, il dietro di serpente (Iliade, VI 179-81).

Esiodo, nella Teogonia (dal verso 318 in poi) concorda con questa descrizione anatomica, solo rincara la dose della eterogeneità mostruosa aggiungendo alla testa del leone altre due teste, una di capra, l’altra di serpente (la Chimera d’Arezzo, un bel bronzo etrusco-italico del quinto secolo avanti Cristo dà ancora un’altra variante: c’è la testa di leone e in più c’è solo la testa di capra collocata però sul collo del mostro). Oltre i dettagli anatomici, Esiodo dà altri particolari: Chimera è figlia di un’altra creatura composita, Echidna, la Vipera, metà soave e seducente fanciulla, metà lungo e orribile serpente, e si colloca in una genealogia di mostri compositi. I nomi di questi esseri mostruosi sono in parte dimenticati, come Echidna, parecchi invece sono sopravvissuti e dalla tradizione della Grecia antica e della latinità classica e medievale sono giunti alle lingue moderne.

Enea, nel corso della sua discesa agli inferi raccontata da Virgilio nel VI libro dell’Eneide, una fonte centrale per la latinità medievale, incontra a un certo punto sia Chimera sia anche Sfinge, Cerbero, Tifone, Arpia. Questi mostri, notoriamente compositi, sopravvivono nell’immaginario e i loro nomi vivono nelle lingue, spesso come nomi comuni. Tutti sono legati a una funzione specifica che incarnano e che è colta dal rispettivo nome comune: il silenzio enigmatico, la furia minacciosa, un vortice d’aria inarrestabile, una cattiveria specialmente crudele. Solo Chimera ha continuato a vivere sì come mostro mitologico, ma è l’unica figura il cui nome è stato scelto come parola indicante in generale qualcosa di fantastico e irreale, più fantastico e irreale di ogni altra creatura mitologica, l’irreale e fantastico per eccellenza.

Di nuovo ci si può servire di derivati della parola base per seguire lo stabilizzarsi in chimera di questo valore generale, di questo riferimento alla bizzarria e all’estrosità. In italiano la cosa pare avvenuta assai presto. Grazie a Tesoro della lingua italiana delle origini (Tlio, accessibile in rete), vediamo che lo stesso fra Giordano che offre il primo esempio italiano di chimera usa anche l’aggettivo derivato chimerico per dire “fantastico, irreale”, un uso che diventa comune dal cinquecento e seicento anche in altre lingue europee. E in queste, negli stessi secoli, appaiono anche verbi come chimerizzare o in inglese chimerize, “fantasticare”.

Questa era ancora la situazione linguistica agli inizi del novecento, quando nei laboratori dei biologi si cominciano a delineare ipotesi di ibridazione e fusione di specie botaniche e zoologiche diverse. È allora che, secondo l’Oxford english dictionary, tra i biologi comincia a essere usato chim(a)era per indicare un organismo le cui cellule non derivano da un solo e stesso zigote. L’uso tecnico palesemente giocò sul riferimento sia alla composita anatomia della capretta mitologica sia ai sensi di irreale, fantastico, utopico che al momento sembravano annettersi alle ipotetiche tecniche di creazione di creature ibride.

Ma tecniche e sperimentazioni sono andate avanti. E un sostantivo di nuovo conio, chimerism in inglese (registrato nell’edizione 1978 del McGraw-Hill dictionay of scientific and technical terms, ma di qualche anno anteriore secondo l’Oxford), ha cominciato a essere usato per i fenomeni e le tecniche di formazione di chimere, sempre e ancora nel senso di organismo animale derivante dal combinarsi di zigoti diversi. In italiano chimerismo in senso biologico appare negli atti di un fondamentale convegno di genetica tenutosi a Napoli nel 1954.

Ormai il fuoco della ricerca scientifica si concentra sul chimerismo. La scoperta delle cellule maschili in organismi femminili ha fatto capire che la natura stessa ammette ibridazioni impreviste a livello microcellulare. Questi processi di microibridazione sono chiamati in inglese microchimerism e in italiano microchimerismo, parola usata già in un articolo di J. Lee Nelson, Le tue cellule sono le mie cellule (Le Scienze, numero 475 marzo 2008, pagine 72-79). Le donne e anche le topoline con un ospite cellulare maschile non sono certo chimere, in nessun senso della parola, ma creature assolutamente normali. E così la parola chimera nelle varie lingue è restata per dir così libera ed è stata destinata in combinazione con micro- a questi minuscoli attori naturali del chimerismo, alle in sé non ibride cellule geneticamente non pertinenti agli organismi in cui si installano.

Il Dorland’s illustrated medical dictionary nell’edizione 1985 registra con cura e in dettaglio le nuove accezioni di chimera come organismo che contiene tessuti e cellule derivate da diversi zigoti, ma non registra ancora microchimera e può rappresentare dunque il terminus post quem della nuova parola e dello slittamento di accezione di chimera. In testi inglesi la parola appare dal 2008. In italiano microchimera appare almeno dal 2010 anche fuori dell’ambito biologico, per esempio in scritti della psicoterapeuta Gioia Marzi. I dati disponibili indicano che l’uso di microchimera è posteriore e secondario rispetto all’uso di microchimerism e microchimerismo. L’apparente base lessicale, microchimera, non è la base di partenza, ma è in realtà una parola estratta da microchimerismo, è ciò che tecnicamente chiamiamo una retroformazione.

Torniamo alle domande iniziali da cui è partita questa lunga navigazione in quello che, riprendendo il titolo di un grande dizionario cinese, possiamo chiamare “il grande mare delle parole”: dacihai 大辞海.

Dalla capretta vernina e dalla creatura mitologica di Omero, Esiodo e Virgilio la navigazione è approdata ai laboratori d’avanguardia della biologia molecolare e dell’ingegneria genetica. J. Lee Nelson e gli scienziati intervistati da Ridgway spiegano che l’individuazione delle microchimere ha suscitato inizialmente interesse perché si intravedeva in esse la causa di fenomeni patologici. Ma la loro mutevolezza e plasticità e adattabilità a tessuti diversi dell’organismo per integrarli e perfino ripararli ha aperto la strada a nuove promettenti ricerche volte a studiare gli effetti non solo non patologici, ma salutari, terapeutici dovuti alla presenza e azione di queste cellule non pertinenti allo zigote da cui un organismo si è sviluppato.

È probabile dunque che di microchimere si debba tornare spesso a parlare. Sarebbe dunque prudente accogliere la parola microchimera, come quasi certamente retroformazione da microchimerismo, nei dizionari, per esempio nello Zingarelli 2017 o magari nel dizionario Treccani online, molto sensibile a ciò che fanno gli altri dizionari, e intanto, da subito, nel nostro dizionario in rete di Internazionale. E ovviamente va accolta, se non è già a lemma, anche la parola primaria, microchimerismo.

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