09 luglio 2016 10:55

“Brexit, Sud Sudan, Biafra: le separazioni non risolvono i problemi”. La voce di Noo, scrittrice, figlia di Ken Saro-Wiwa, l’attivista nigeriano impiccato per aver combattuto la dittatura e gli abusi delle multinazionali del petrolio, arriva da un piccolo appartamento alla periferia di Londra. “Per avvicinarti al centro devi avere un superlavoro”, spiega sorridendo all’altro capo del telefono. È solo un attimo, torna amara: “Penso alla Germania dei primi anni trenta. Mi sento minacciata, e se l’economia va giù, per migranti e minoranze saranno guai peggiori: il fascismo può tornare in ogni momento”.

Alt, una premessa e un passo indietro: quella di Noo, 39 anni, africana cosmopolita, innamorata di Londra “isola nell’isola” che ha votato contro la Brexit, è una prospettiva particolare. Bambina, si trasferì nel Regno Unito con la madre in cerca di una “homeland” sicura. Il padre sarebbe stato impiccato nel 1995, nelle carceri del dittatore Sani Abacha. Per Noo allora niente più estati in Nigeria, fino a In cerca di Transwonderland, il suo ultimo libro, viaggio nei paradossi del paese più popoloso d’Africa, intreccio di culture, etnie, ricchezze e povertà. “Il rapporto con l’altro è contraddittorio”, spiega Noo. “Ci sono tanti matrimoni interreligiosi ma anche tanta intolleranza, nei confronti dei non cristiani o dei non musulmani”.

Le menzogne dietro le secessioni

Stare insieme può essere difficile, ha imparato questo. Nel Regno Unito, la soglia di reddito minimo che devono possedere i lavoratori extracomunitari qualificati per restare nel paese è stata alzata a 35mila sterline, preannuncio della futura stretta sui migranti. Ma conflitti e secessionismi sono tornati a spazzare anche l’Africa. È di questi giorni l’ultimo azzardo dei Vendicatori del delta del Niger, un gruppo ribelle nigeriano che sostiene di ispirarsi anche a Ken Saro-Wiwa. Dopo un’ondata di sequestri e di sabotaggi agli oleodotti, hanno chiesto al governo federale un referendum stile Brexit. Sui social network è perfino comparsa “la mappa della Nigeria del futuro”: divisa in sei, con il delta e i pozzi per conto loro.

Noo Saro-Wiwa ricorda il Biafra, un milione di morti per andar via dalla Nigeria

“Ingiustizie e povertà non si superano con le divisioni ma affrontando i problemi veri”, sottolinea Noo. Convinta che dietro la Brexit e le secessioni ci siano spesso grandi menzogne. Nel Regno Unito è stata data la colpa ai migranti e non alla “globalizzazione liberista”, con le industrie finite in Asia e i prezzi delle case fuori controllo; in Africa sono state accusate intere comunità e gruppi etnici, indipendentemente dalle scelte politiche. Noo ricorda il Biafra, un milione di morti per andar via dalla Nigeria, o il Sud Sudan, due milioni di sfollati dopo la festa per l’indipendenza da Khartoum. Drammi lontani dalla Brexit, ma che rendono il senso di un colpo subìto, di un’atmosfera che si fa cupa.

Ma dopo l’emozione e lo sgomento per l’esito del referendum britannico anche le riflessioni africane sono diventate più sfumate. A condurre il dibattito sono politici, ricercatori e giornalisti, nelle metropoli subsahariane ma anche nel cuore dell’Europa comunitaria. È il caso di Uzo Madu, blogger nigeriana fondatrice a Bruxelles di What’s in it for Africa, portale dedicato all’impatto delle politiche dell’Ue a sud del Sahara.

Un agente della polizia nigeriana pattuglia una strada di Okerenkoko, nel delta del Niger, l’8 giugno 2016. (Stefan Heunis, Afp)

È una coincidenza, però il colloquio precede di poche ore l’annuncio di un piano per tagliare dal 20 al 15 per cento le tasse per le aziende registrate nel Regno Unito. “I rischi maggiori per l’Africa sono legati ai paradisi offshore e all’evasione fiscale delle multinazionali, un’emorragia che sottrae al continente fra i 30 e i 60 miliardi di dollari all’anno, più di quanto valgano gli aiuti allo sviluppo”, sottolinea Madu. “L’Unione europea sta definendo norme di contrasto che in un Regno Unito fuori dell’Ue non sarebbero applicate”.

Intese commerciali alternative

A preoccupare, in generale, è l’incertezza sul futuro status del Regno Unito. Le incognite delle trattative lungo l’asse Londra-Bruxelles spingono alla cautela, non impedendo però di identificare dei punti chiave. Tra questi, il ruolo critico del paese rispetto ai sussidi garantiti ai produttori europei dalla Politica agricola comune (Pac). Questi aiuti penalizzano i contadini africani ed è diffusa l’idea che con Londra fuori dell’Ue difficilmente saranno messi in discussione. In una situazione del genere, d’altra parte, i produttori subsahariani punterebbero a trarre vantaggio da nuove aperture britanniche. E meno svantaggiose per il continente potrebbero rivelarsi intese commerciali con il Regno Unito alternative ai contestati Accordi di partnership economica con Bruxelles.

Il Regno Unito può forse permettersi di restare ai margini. Divisi, invece, i paesi africani non ce la farebbero mai

Ipotesi legate all’evolversi dei negoziati e degli scenari, ma che alla lunga non appaiono decisivi. A evidenziarlo sono diversi esperti, come la zambiana Grieve Chelwa, firma del blog Africa is a country. È convinta che per capire quanto peserà la Brexit basta fare i conti. Nel 2014, nel Regno Unito, non è finito più del 5 per cento delle esportazioni africane, una quota molto più bassa rispetto a quella relativa al resto dell’Ue o alla Cina. Che i floricoltori keniani siano in allarme non muta insomma il quadro complessivo.

Stesso discorso per gli investimenti a sud del Sahara, finora britannici in appena otto casi su cento, per di più concentrati in Sudafrica e in settori altamente speculativi come miniere e finanza. “L’influenza del Regno Unito nel continente non è la stessa di alcuni decenni fa”, sintetizza Chelwa. “Se Londra se ne andrà per la sua strada, l’Africa le dirà ‘in bocca al lupo’”.

Più difficile capire se la Brexit e la crisi del modello europeo condizioneranno il processo di integrazione a sud del Sahara. “Il referendum del 23 giugno dice agli africani che se un blocco regionale è troppo disomogeneo, da fonte di ispirazione l’unità diventa fonte di problemi”, osserva Noo dal suo appartamento londinese. Differente la lettura di Thomas Laryea, analista di Ventures Africa: “L’integrazione mitiga gli svantaggi derivanti dalle dimensioni ridotte delle singole economie nazionali. Il Regno Unito è la quinta potenza mondiale e pur con qualche rimpianto può forse permettersi di restare ai margini. Divisi, invece, i paesi africani non ce la farebbero mai”.

I nipotini di Kwame Nkrumah, e di chi come lui credeva nell’Africa unita, avrebbero ancora qualcosa da dire. Al Cairo lo scorso anno è stato in effetti siglato un accordo per il libero commercio che copre 26 paesi e oltre la metà del pil continentale. E mentre l’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo fa campagna per la moneta unica, nasce il passaporto panafricano. L’appuntamento è a Kigali, il 17 e il 18 luglio. In un primo momento, il documento lo useranno solo i capi di stato e i ministri degli esteri dei 54 paesi membri dell’Unione africana, ma dal 2018 toccherà anche ai loro connazionali. Quasi incredibile, ai tempi della Brexit.

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