10 agosto 2016 12:40

Chiaiano, quartiere nord di Napoli. La strada s’inerpica stretta addentrandosi nella sconfinata campagna battuta dal sole. Ripidi vicoli costeggiati da campi, senza indicazioni né cartelli. Solo sporadici segnali dipinti a mano con una scritta seminascosta dalla vegetazione che dice: “Selva Lacandona, bene confiscato”. Ancora qualche curva e il paesaggio si apre su dolci colline pettinate da vigne e frutteti. Qui la periferia urbana confina direttamente con i campi e le aziende agricole. A pochi passi dalla fermata della metropolitana di Chiaiano e dai mostri architettonici strabordanti d’umanità di Scampia e Secondigliano, il cemento s’innesta nel verde del Parco metropolitano delle colline di Napoli, un’area protetta a circa trecento metri di altitudine sul mare.

Su questa terra sorge il Fondo rustico Amato Lamberti, il primo bene agricolo requisito alla criminalità organizzata e riqualificato da una cooperativa sociale nel comune di Napoli. Un terreno di 14 ettari posto sotto sequestro nel 1997, confiscato nel 2001 e “dimenticato” dallo stato per undici anni. Nel nome della comunità agricola che offre inserimento lavorativo a detenuti e rifugiati riecheggiano le lotte zapatiste del subcomandante Marcos nella Selva Lacandona, in Chiapas, e la figura di un grande sociologo napoletano, Amato Lamberti.

“Qui regnava la famiglia Simeoli, il braccio imprenditoriale dei Nuvoletta e Polverino, fra i clan che dagli anni settanta hanno cominciato a muovere cemento in tutta Italia. Il ramo di Cosa Nostra impiantato in Campania voleva costruire nel parco un quartiere residenziale di lusso, il cosiddetto ‘Vomero 2’. Ma mentre bonificavano il terreno hanno trinciato il metanodotto sotterraneo ed è saltato tutto per aria. Per questo è scattato il sequestro”. Ciro Corona cammina a fatica nei campi. È un figlio di Scampia, laureato in filosofia, che ha deciso di restare e non piegarsi alla logica del “o ti associ alla mafia o te ne vai”. Nel 2008 ha creato l’associazione (R)esistenza che, fra le varie attività, dal 2012 gestisce il bene confiscato di Chiaiano.

Mohamed lavora nei campi della Selva Lacandona, il 27 luglio 2016. (Luca Salvatore Pistone)

Ciro racconta che, secondo le indagini, su queste colline fino a una decina d’anni fa venivano sciolte persone nell’acido. A una manciata di chilometri dal limitare di questi campi, a Marano, è stato nascosto per mesi Totò Riina durante la sua latitanza. Oggi, invece, qui si producono quattordicimila bottiglie di Falanghina doc dei Campi Flegrei vendute in tutta Italia, birre artigianali, frutta fresca e marmellate.

“La camorra non se n’è andata, ha solo cambiato forma. Quando ha capito che su questo terreno ci stava perdendo la faccia sono cominciate le minacce. Prima è venuto il nipote del boss a dire che questa è proprietà loro, hanno sradicato cinquanta ciliegi, poi ci hanno rubato materiale del valore di circa cinquantamila euro. Una notte hanno perfino scavato due tombe nel campo con tanto di croci conficcate nella terra”. Ma Ciro e compagni non si lasciano intimidire, si fanno ritrarre di spalle mentre orinano nelle fosse e mettono la foto in rete. “Queste terre sono nostre, non della camorra. Ce lo insegna la storia di questi luoghi, ce l’hanno insegnato i briganti prima e i partigiani poi: quello che ci appartiene va difeso, anche con la vita”.

Da giugno tira un’aria nuova alla Selva Lacandona: ogni mattina Victor, Akwasy e Godspower, tre ragazzi nigeriani, e Mohamed, giovane sudanese originario del Darfur, risalgono a piedi la strada asfaltata da don Angelo Simeoli per aiutare nei campi Dario e gli altri otto detenuti destinati ai lavori sociali. Nel prendersi cura del vigneto, del pescheto, del pruneto e dei trecento limoni appena piantati “per il limoncello”, i ragazzi di Poggioreale e i richiedenti asilo sono coordinati da Carmine, fattore napoletano socio della cooperativa. “Abito a cinquanta metri dal bene confiscato e in quarant’anni non avevo mai visto tanta gente arrivare fin quassù. Durante i campi estivi vengono ragazzi da tutta Italia, montano le tende, mangiano con noi e ci danno una mano. Durante l’anno lavorano ex detenuti della zona agli arresti domiciliari e rifugiati africani. L’essenza di questo posto è stare insieme e non lasciarsi mai soli, guardandosi le spalle l’un l’altro”.

Il fattore tatuato

Carmine ha studiato da tecnico di laboratorio senza mai smettere di lavorare nei campi del padre, un produttore di ciliegie della zona. La sua vita, racconta, è cambiata con le lotte cittadine contro la discarica di Chiaiano, a meno di un chilometro da casa. Facendo su e giù dal trattore, Carmine osserva Mohamed e gli altri zappare il nuovo limoneto. “Sudiamo tutti alla stessa maniera, è questo il bello del lavoro in campagna. Quassù, nei campi, siamo tutti uguali. Giochiamo e scherziamo, ma sempre lavorando. Quello che mi piace di loro è che hanno un rapporto con la terra e la natura molto più stretto del nostro. Lavorare con i ragazzi africani è stupendo, perché imparano in fretta e hanno molto da insegnare. La zappa, per esempio, la usano come se fosse una penna”.

Dario, sudato fradicio, richiama il figlio che non riesce a chiudere la pompa dell’acqua mentre Mohamed guarda perplesso l’orto. “Non riusciamo a spiegargli che è ancora spoglio perché lo stiamo preparando per l’inverno. Lui parla solo arabo, i nigeriani uno strano inglese”. Accendendosi l’ennesima sigaretta della giornata, il fattore tatuato si allontana fra i filari.

Tommaso e Amadou di Funky Tomato al termine di una giornata di lavoro, il 27 luglio 2016. (Luca Salvatore Pistone)

Quando il sole è ormai alto nel cielo, Carmine spegne il trattore e chiama i ragazzi per il pranzo. Allineati al magazzino degli attrezzi – dove altri 150 alberelli di limone aspettano di essere trapiantati – dei prefabbricati offrono un po’ d’ombra ai lavoratori. Sul fianco di una casupola adibita a cucina campeggia la scritta “Qui camorra e malapolitica hanno perso”. Dario scola la pasta e serve i tranci di pizza comprati in paese, mentre moglie e figlio apparecchiano la lunga tavolata di legno. Mohamed e i tre rifugiati nigeriani, dopo essersi sciacquati sotto le docce esterne, si avvicinano timidamente al gruppo. Sono in Italia da fine aprile e non conoscono ancora la pasta. Sono tutti richiedenti asilo ospitati nella casa-comunità The bridg’s house gestita dalla cooperativa sociale Il tulipano, a pochi passi dalla metropolitana di Chiaiano e a qualche chilometro dal Fondo Lamberti.

Durante il pranzo Dario racconta di essere appena diventato, insieme a un altro ex detenuto, socio-lavoratore della cooperativa con un contratto a tempo indeterminato. “La prigione è un inferno. Ci si entra per qualche cazzata, rapine, furti, spaccio di droga, e non se ne esce più. Quello che ti ammazza là dentro è la noia, non avere niente da fare. Poter uscire e lavorare a progetti d’utilità sociale è un privilegio per pochi, anche perché la maggior parte dei detenuti non sa nemmeno che esistono queste possibilità. Secondo me dovrebbero farlo tutti”. Mentre parla, Mohamed e gli altri rifugiati assaporano in silenzio il gusto semplice del sugo, litigando con la mozzarella filante della pizza.

I neomelodici nigeriani

A fine pranzo si riordina la tavola tutti insieme con la musica nigeriana sparata alta dai cellulari. “Sembrano i neomelodici napoletani!”, scherza Dario. Mohamed e i suoi tre compagni di zappa ringraziano, si congedano masticando le poche parole d’italiano imparate e s’incamminano verso la casa-comunità. Un giorno l’orto a cui stanno lavorando da settimane darà i suoi frutti, che potranno consumare o rivendere per un minimo guadagno.

Mohamed, che è del mestiere venendo da una famiglia di agricoltori, ha fretta di tornare a casa per prendersi cura di un altro orto, ben più rigoglioso. Da quando è arrivato alla The bridg’s house, la villa su due piani dove vive con altri undici rifugiati africani, Mohamed ha rianimato l’orto abbandonato nel cortile. Dopo mesi di lavoro chiama ogni pomodoro e zucchina con il proprio nome in inglese, arabo e italiano. “Non conosco nessuno in Italia. Ma in Darfur c’era la guerra e dove c’è la guerra non si può coltivare la terra”.

Dopo la formazione sull’orto invernale, i quattro agricoltori richiedenti asilo saranno impiegati nel nuovo campo di pomodori del Fondo Lamberti che da quest’anno partecipa al progetto Funky Tomato, una rete di contadini e associazioni del sud Italia per una filiera di produzione e trasformazione partecipativa del pomodoro, contro le logiche di sfruttamento della manodopera migrante. Per adesso ai pomodori anticaporalato della Selva Lacandona lavorano Tommaso, operaio attivista napoletano, e Lamin, rifugiato del Ghana arrivato in Italia nel 1987 e diventato punto di riferimento della comunità subsahariana di Castel Volturno. Altre persone, altre lotte e altre storie che irrigano queste terre.

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