01 febbraio 2018 10:15

Per i cittadini di Bamako l’inizio del 2018 ha l’odore acre dei lacrimogeni. In Mali gennaio è il mese delle manifestazioni non autorizzate. In un paese che si avvicina alle elezioni presidenziali (previste verso luglio-agosto), per esprimere il crescente malcontento verso una classe politica sorda e prepotente, ai giovani non resta che scendere in piazza.

Contro la Francia, che dopo cinque anni dai bombardamenti al nord non riesce a sradicare le forze jihadiste, ormai straripate al centro del paese e negli stati vicini. Contro la violenza coniugale sulle donne. Oppure contro la promessa elettorale del presidente – Ibrahim Boubacar Keita, che ora ambisce alla rielezione – di creare 200mila nuovi posti di lavoro. Il copione è sempre lo stesso: ingenti dispiegamenti di forze dell’ordine in assetto antisommossa, pioggia di lacrimogeni, cariche e arresti per disperdere i manifestanti. È successo il 10 gennaio davanti all’ambasciata francese, il 12 davanti al parlamento e il 13 davanti alla borsa del lavoro.

Un nuovo attore politico e sociale
Quest’ultima protesta, però, è stata diversa. Sciolta dalla polizia ancor prima di cominciare, ha assunto un valore simbolico perché gli organizzatori, i ragazzi del Movimento nazionale dei disoccupati maliani (Modem), per la prima volta hanno esplicitamente chiamato a manifestare i loro concittadini espulsi negli ultimi mesi dalla Libia e dall’Algeria. Questo elemento unito ad altri fatti recenti sta facendo emergere i migranti respinti e tornati in Mali come un nuovo attore politico e sociale.

Dietro ai pittoreschi nomi dei gruppi promotori di questo agitato gennaio – nello specifico, oltre a Modem, il collettivo Le Amazzoni e On a tout compris (Abbiamo capito tutto) – si manifestano giovani che si sentono sempre più distanti e abbandonati dai propri governanti. La forza di questo senso di abbandono tra la generazione più numerosa della storia (attualmente oltre 200 milioni di africani hanno tra i 15 e i 24 anni) porta a profonde crisi identitarie che in alcuni casi, sempre di più, conducono alla radicalizzazione religiosa o alla migrazione in Europa.

La frustrazione nasce dalla frattura del patto sociale tra potere politico e cittadini. In Mali come altrove

Tralasciando il primo estremo – che nel Sahel ha il volto del terrorismo di matrice neojihadista dei gruppi legati ad Al Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi) e al gruppo Stato islamico – “partire all’avventura” rappresenta ancora oggi, per molti giovani africani, un disperato tentativo di affermare la propria libertà, di determinare il proprio destino investendo collettivamente nel miglioramento di vite altrimenti ben poco dignitose.

Anche se questo viaggio è stato reso più costoso, lungo e pericoloso dagli accordi di contenimento firmati tra l’Unione europea e alcuni stati dell’Africa, è un’uscita d’emergenza dalla quotidiana frustrazione di ideali, aspettative e sogni interrotti offerta da governanti “amici dell’occidente”. Una frustrazione che nasce dalla frattura del patto sociale tra potere politico e cittadini. In Mali come altrove.

La triade sicurezza-migrazioni-sviluppo
Nel novembre del 2017, sempre nella capitale Bamako, all’indomani della pubblicazione del video della Cnn che mostrava alcuni migranti subsahariani venduti come schiavi in Libia, i giovani maliani hanno vigorosamente protestato davanti all’ambasciata libica.

I giovani, riuniti in strada dall’Associazione maliana degli espulsi (Ame), hanno chiesto a gran voce al governo di reagire formalmente e prendere posizione su quanto succede ai cittadini subsahariani sempre più brutalmente espulsi da “paesi fratelli” come la Libia e l’Algeria. In questa occasione, per la prima volta, la rabbia dei giovani si è tradotta nella richiesta ai propri rappresentanti di far sentire la voce dei più deboli, di farsi loro portavoce agli incontri internazionali che, in Europa e in Africa, continuano a girare attorno alla triade sicurezza-migrazioni-sviluppo.

“Con quel video è apparso chiaro a tutti che i veri schiavi sono i nostri governanti”. Check è un giovane con alle spalle una laurea in giurisprudenza e quasi due anni di stage non pagato in polizia. Da poco trovato un lavoro in una ong – rara opportunità d’impiego rimasta in un paese con un tasso di disoccupazione giovanile alle stelle – questo trentenne va dritto al punto: “Per ottenere gli aiuti allo sviluppo che gli permettono di arricchirsi e di restare eternamente al potere, i politici africani sono soggiogati al volere delle potenze straniere”.

Aiuti alla repressione
Check allude (anche) agli effetti dell’Eu emergency trust fund for Africa, il “piano Marshall per l’Africa” nella retorica di Bruxelles, che sta facendo piovere 3,3 miliardi di euro sui paesi di origine e transito dei flussi migratori verso la rotta del Mediterraneo centrale. Soldi che, stando a inchieste come Diverted Aid e a quella curata da Concord Italia, finiscono per ingrassare autocrati locali a condizione di rafforzare controlli e repressione alle frontiere.

È il pilastro centrale della ricetta europea per il Sahel (vedi missione militare appena approvata dall’Italia in Niger) che Check liquida, all’africana, con un proverbio: “Non si può fermare il mare usando delle pietre”. Come a dire: se non ci sarà un vero cambiamento nelle relazioni tra Africa e Europa che concentri gli sforzi dello sviluppo verso un reale miglioramento delle condizioni di vita delle persone che vivono in questi paesi, la gente continuerà a partire.

Nonostante i recenti programmi di sensibilizzazione delle agenzie di cooperazione che operano in Africa occidentale, per esempio, nella regione di Kayes da cui proviene oltre l’80 per cento dei maliani attualmente in Europa, la migrazione resta uno status symbol. “A Kayes le ragazze neanche ti guardano se non hai il coraggio di partire!”, ridacchia Cheick. Alcuni antropologi sostengono perfino che in zone rurali punto di partenza di migliaia di africani, emigrare abbia sostituito i tradizionali riti d’iniziazione per sancire il passaggio dalla pubertà all’età adulta.

Un dinamismo generazionale frustrato dall’immobilismo politico di regimi democratici solo di facciata e da una rapace corruzione che permea ogni aspetto della vita pubblica e privata. Dal poliziotto che chiede mille franchi cfa (1,5 euro) al tassista fermato senza documenti in regola, al politico che chiede milioni a un parente per trovargli un posto nella pubblica amministrazione.

Scrive Boubacar Sangaré, giovane giornalista maliano, nel suo Etre étudiant au Mali (La Sahélienne, 2016): “Che società senza cuore! Società che ha fatto della propria gioventù una quantità trascurabile, dicendole che è incapace, ignorante, che non è nulla, non ha nulla, non può nulla, non sa nulla. Qui i nostri dirigenti hanno coltivato il disprezzo della gioventù, facendone un nemico da controllare gettandogli come mangime delle promesse, dei discorsi, delle banconote”.

Alle parole del suo libro fanno eco quelle di Check: “Con un paese in cui non funziona niente – ospedali, scuole, banche – i ‘patron’ vanno a curarsi nelle migliori cliniche occidentali, hanno conti segreti nei paradisi fiscali, mandano i figli a studiare in costosi campus americani e le mogli a fare shopping nei negozi più chic di Parigi”. Ferite aperte che un giorno i lacrimogeni potrebbero non bastare più a chiudere.

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