15 giugno 2015 13:05

Munir e Osman hanno 16 e 17 anni, sono partiti qualche settimana fa dall’Eritrea con due amici, poi in Libia si sono separati. Gli amici sono già arrivati nei Paesi Bassi, invece il viaggio di Munir e Osman si è interrotto a Roma.

I ragazzi non si aspettavano la chiusura delle frontiere da parte della Germania nei giorni del G7 e questo li ha costretti a cambiare i loro progetti. Sognano Amsterdam, dove vogliono fare richiesta d’asilo e provare a cominciare un’altra vita. Sono magri, giovani e spaventati. Tutto quello che possiedono sta in un piccolo zaino verde che uno di loro si porta in spalla.

Adem, un rifugiato eritreo che vive a Roma da molti anni, ha nascosto i due ragazzi a casa sua, dopo che l’11 giugno alla stazione Tiburtina la polizia italiana ha caricato i migranti che sostavano sul prato davanti al piazzale e ne ha fermati 18, costringendoli a essere identificati e di conseguenza a fermarsi in Italia per chiedere la protezione internazionale, come previsto dal trattato di Dublino.

Munir e Osman hanno passato la notte da Adem e ora sono alla stazione Termini, al binario 22: stanno per salire su un Intercity per Ventimiglia, da lì proveranno a entrare in Francia, pagando dai trenta ai cinquanta euro per un passaggio in macchina che li porterà fino a Mentone.

Sono partiti da Palermo in pullman e sono arrivati a piazzale Tiburtino. Il biglietto l’hanno pagato 37 euro. Non vogliono parlare di quello che lasciano e nemmeno di quello che li aspetta, sanno pochissimo del loro futuro e della geografia dell’Europa. Per questo si fidano di Adem e gli rivolgono tante domande, tutte quelle che hanno in mente. Da dove conviene passare, con quali mezzi, dove dormire. Adem suggerisce di prendere un taxi a Ventimiglia, molto presto al mattino, attraversare la frontiera e poi raggiungere Marsiglia. Da lì salire su un pullman diretto per Amsterdam. Se tutto va bene in un paio di giorni possono arrivare a destinazione. I treni sono meno sicuri dei pullman in Francia, spiega Adem. Ed è meglio passare per le città meno battute dalle rotte dei migranti, ora che Parigi ha intensificato i controlli alle frontiere.

I due ragazzi salutano Adem con una pacca sulla spalla, poi salgono sul treno e scompaiono. Non si voltano mai.

Il viaggio dal Sudan è diventato più veloce perché la tratta di esseri umani è diventata un affare molto redditizio per i libici

“Chi è in transito si riconosce dai vestiti, sono consumati dal viaggio”, spiega Adem. “Si muovono sempre in gruppi di due o tre, mai da soli. Sono spaventati, il viaggio attraverso la Libia sta diventando di anno in anno più insidioso, anche se è più rapido”, racconta. “Quando l’ho fatto io, quasi dieci anni fa, ci ho messo due anni per arrivare dal Sudan alla Libia, ora da Khartoum ci vogliono circa due settimane per raggiungere la costa vicino a Bengasi”, spiega. Secondo Adem il viaggio dal Sudan è più veloce perché la tratta di esseri umani è diventata un affare molto redditizio per i libici, dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi nel 2011.

Il governo della paura. Secondo i dati del ministero dell’interno, dal 1 gennaio 2015 sono arrivati in Italia 57.019 migranti, tra cui 5.262 minori. I ragazzi eritrei che hanno l’età di Munir e Osman, 16 o 17 anni, scappano dal loro paese per sottrarsi al servizio militare obbligatorio.

Nell’ex colonia italiana, governata dal 1993 dal dittatore e leader dell’indipendenza Isaias Afewerki, la leva è obbligatoria per tutti quelli che hanno compiuto 18 anni e dura almeno 18 mesi, ma può essere prolungata e trasformarsi in arruolamento permanente. Inoltre, molti soldati sono costretti ai lavori forzati. Secondo l’ong Save the Children, i minori eritrei decidono di lasciare il paese perché vogliono sottrarsi alla coscrizione e sentono la responsabilità di mantenere la famiglia lavorando all’estero.

“Gli eritrei non sono governati dalla legge, ma dalla paura”, si legge in un recente rapporto delle Nazioni Unite sui diritti umani in Eritrea, che raccoglie testimonianze su esecuzioni extragiudiziali, schiavitù sessuale e lavoro forzato. Secondo il rapporto dell’Onu, il governo di Asmara è responsabile di violazioni dei diritti umani diffuse, che hanno creato un clima di paura in cui il dissenso è represso. Questa situazione spinge centinaia di migliaia di persone ad abbandonare il paese.

Secondo i dati di Frontex, gli eritrei sono il gruppo più numeroso di migranti che attraversa il Mediterraneo per arrivare in Europa dopo i siriani: in cinquemila lasciano il paese ogni mese

Secondo i dati di Frontex, gli eritrei sono il gruppo più numeroso di migranti che attraversa il Mediterraneo per arrivare in Europa dopo i siriani: in cinquemila lasciano il paese ogni mese. In Italia ci siamo accorti dell’emigrazione massiccia dall’Eritrea il 3 ottobre 2013, quando un peschereccio è naufragato davanti all’isola dei Conigli a Lampedusa.

L’imbarcazione era salpata due giorni prima da Misurata, in Libia. Nel naufragio sono morte 366 persone di nazionalità eritrea. “La paura non ti lascia mai durante il viaggio, impari a controllarla ma non te ne liberi mai”, racconta Adem. Quello che gli eritrei temono di più sono le forze dell’ordine, tutti sanno che non devono essere identificati se vogliono continuare il loro viaggio verso nord, per questo si fidano solo dei loro connazionali.

Una migrante nel centro Baobab, Roma, il 14 giugno. (Danilo Balducci, Corbis/Contrasto)

I transitanti non esistono. Si muovono in gruppo, non si lasciano mai da soli, sono arrivati a Roma da due o tre giorni e contano di partire presto. Cercano l’ombra sotto i pini che costeggiano via Tiburtina, in una giornata torrida di giugno. Lungo le mura che circondano il cimitero monumentale del Verano, sotto le rampe della tangenziale est che si staglia imponente nel suo grigiore tra la stazione Tiburtina e San Lorenzo, si siedono a parlare sulle aiuole e su triangoli striminziti di prato. Si nascondono dalla polizia.

Infatti l’11 giugno gli agenti sono intervenuti davanti alla stazione Tiburtina, hanno rincorso e caricato i migranti, alcuni eritrei sono stati fermati e portati in questura. Il giorno successivo la polizia è tornata al centro Baobab, in via Cupa, un centro culturale trasformato in rifugio per transitanti, e ha rincorso le persone che sostavano lì davanti. “Se non fosse intervenuto don Marco, il parroco della zona, ne avrebbero fermati degli altri come ieri”, racconta il fotografo Stefano Montesi, presente all’aggressione.

Negli ultimi giorni circa ottocento migranti si sono riversati nelle strade intorno a via Cupa, nel quartiere San Lorenzo di Roma. Tra loro molte donne e bambini. Ma anche molti minori non accompagnati come Osman e Munir.

Daniel Zagghay, direttore del centro Baobab a Roma, conferma: “Ieri notte abbiamo avuto 500 persone, oggi è arrivato un gruppo con una quarantina di donne e bambini. Ma abbiamo distribuito circa seicento pasti. Noi avremmo disponibilità solo per duecento persone”.

La politica li ha scoperti da poco e li chiama ‘transitanti’, come se fossero una categoria speciale di migranti, ma per la legge non esistono

Dopo lo sgombero del borghetto di Ponte Mammolo a Roma, l’11 maggio, e la chiusura delle frontiere da parte della Germania e dell’Austria per il G7, la città ha scoperto all’improvviso che centinaia di persone in transito dal sud dell’Italia verso il Nordeuropa fanno tappa nella capitale. Ogni giorno arrivano a Roma tra le cento e le trecento persone, secondo Flavio Ronzi della Croce rossa italiana. Si fermano qualche giorno per organizzare l’ultima fase del viaggio e poi ripartono.

La politica li ha scoperti da poco e li chiama “transitanti”, come se fossero una categoria speciale di migranti, ma per la legge non esistono. I cosiddetti transitanti rappresentano la maggior parte dei migranti che arrivano in Italia, sfuggono dal sistema di assistenza ufficiale dei Cara e si affidano a una rete informale costituita da parenti, amici, conoscenze o associazioni umanitarie. Il loro obiettivo è sfuggire all’identificazione e alla fotosegnalazione, in modo da poter continuare il viaggio.

Secondo il ministero dell’interno, nel 2014 circa 50mila migranti, tra cui ci sono molti potenziali richiedenti asilo, hanno lasciato le strutture di prima accoglienza in Italia a cui erano stati assegnati al loro arrivo e sono fuggiti verso il Nordeuropa, facendo perdere le loro tracce alle autorità italiane. Tuttavia, secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), il dato sarebbe sottostimato: si tratterebbe in realtà di centomila persone, cioè la maggior parte dei migranti arrivati in Italia nell’ultimo anno.

“È molto semplice, basta sottrarre alla cifra dei migranti registrati nei centri di prima accoglienza e che avrebbero le caratteristiche per chiedere asilo, la cifra dei migranti che hanno effettivamente fatto richiesta d’asilo”, spiega Gianfranco Schiavone dell’Asgi. I transitanti sono l’effetto del fallimento del trattato di Dublino in materia di asilo, aggiunge Schiavone.

Se il trattato di Dublino funzionasse, la maggior parte di queste persone sarebbe costretta a rimanere in Italia o nei paesi di ingresso in Europa.

Un fortino nel cuore di Roma. San Lorenzo è uno dei quartieri di Roma in cui la guerra ha lasciato più tracce: sui palazzi che ancora portano i segni delle bombe, nei ricordi degli anziani. Deve essere per questo che da quando si è sparsa la voce che nel centro di via Cupa ci sono donne e bambini e hanno bisogno di tutto, è un continuo via vai di persone che vengono a portare quello che possono.

“Sono il preside della scuola media della zona, abbiamo raccolto coperte e cibo. Anche dei soldi, che ci facciamo?”, chiede un signore sulla cinquantina al direttore del Baobab, Daniel Zagghay. Non è il primo della giornata. Vengono dal quartiere, ma vengono anche da tutta la città. Sono associazioni, parrocchie, rappresentanti di partiti, ma anche singoli individui.

C’è il parroco della parrocchia, don Marco, che se ne va in giro in motorino con il casco calzato in testa. “Arrivano duecento pacchi di pasta dagli scout della Casilina, domenica il pranzo lo offre la chiesa copta eritrea di Roma”, coordina don Marco, e schizza a destra e a sinistra.


I migranti sono asserragliati dentro al cortile del Baobab come in un fortino, sono difesi dall’alto cancello di ferro nero. Da una piccola finestra ogni tanto si affaccia qualcuno a controllare. I giornalisti possono entrare solo scortati da Zagghay, che apre le porte quando arriva qualche politico. Nel cortile sotto ad alcuni gazebo, decine di persone sono stese a terra, alcune sono avvolte da coperte. Non c’è spazio per camminare, sono stesi gli uni affianco agli altri. I bambini sembrano divertiti anche se la situazione è drammatica. Giocano tra di loro e con gli adulti, vanno incontro a chi non conoscono. Mansur ha sei anni e sa qualche parola di inglese, mi viene incontro con due occhi enormi, neri come la pece, mi sorride, mi chiede di essere preso in braccio. C’è una bambina che tutti chiamano “la principessa”, le hanno messo un vestito a fiori più grande di qualche taglia, ma lei lo porta con eleganza facendo ondeggiare la gonna.

Ce n’è un’altra che fa le linguacce a tutti quelli che incontra, e poi ride. Le donne sono belle e altere, alcune hanno lo sguardo stanco, sfinito. Helena mi prende per un braccio, parla un po’ d’inglese mi chiede cosa deve fare per uscire dall’Italia. Le spiego che la Germania ha chiuso le frontiere. Mi chiede ancora che deve fare, prendo un pezzo di carta e le scrivo di rimanere in Italia fino al 15 giugno. Poi le cose forse andranno meglio. Ha due figli, uno di due anni e uno di otto. Mi guarda e non si fida. “È sicuro rimanere?”, mi chiede. Poi mi chiede ancora una volta con gli occhi: “Che devo fare?”. E io penso che sia un miracolo che sia arrivata fin qui da sola, senza sapere nulla se non quello che le hanno raccontato. Ci guardiamo in silenzio e io penso che ce la farà ad arrivare dove vuole, ha più coraggio che parole.

Arrivano i volontari da tutta Roma. È in quel momento, sul calare della sera, che dal fortino escono tutte le decine di persone che si erano rifugiate nel Baobab per sfuggire alla polizia

All’interno del centro la situazione è peggiore che all’esterno, nelle poche camere dormono decine di persone, i bagni sono impraticabili, l’odore di fogna e di piscio è insopportabile.

Tuttavia proprio al centro della struttura c’è un ristorante e anche un parrucchiere. Tre persone si stanno facendo tagliare i capelli, c’è una stanza a vetri, dei mobili neri, grandi specchi. Un parrucchiere così potrebbe stare ad Asmara o dovunque in Africa. Un piccolo pezzo di normalità. Il ristorante è seminterrato e ha una parte all’aperto: è diventato un magazzino per i viveri, è qui che le persone del quartiere stanno portando cibo, biscotti, latte, pelati, pannolini per i bambini.


Quando arriva la sera e l’ora di cena si avvicina, la Croce rossa allestisce un gazebo per distribuire i pasti su via Cupa. Arrivano i volontari da tutta Roma. È in quel momento, sul calare della sera, che dal fortino escono tutte le decine di persone che si erano rifugiate nel Baobab per sfuggire alla polizia. Sono tantissimi. Si mettono in fila, come facevano pure nei campi profughi in Sudan. Prima le donne con i bambini, poi le ragazze, infine gli uomini. Stanno ad aspettare, ordinati e silenziosi. Pasta e lenticchie, latte, pane, panini.

“C’è tantissima gente che sta venendo qui in queste sere, persone anziane, associazioni o singoli. Ognuno porta quello che può. Prima sono arrivate due ragazze con due grandi pacchi di biscotti da distribuire o un’altra signora con una pentola di pasta”, spiega Maria, volontaria della Comunità di Sant’Egidio.

I volontari sono concentrati: versano latte, riempiono i piatti. In questa notte di inizio estate, nel cuore di uno dei quartieri più popolari di Roma, l’odio sparso dai Salvini e la difficoltà a convivere svanisce in un mutuo e silenzioso riconoscersi.


La tendopoli vuota. Alla fine hanno costruito una tendopoli dietro alla stazione Tiburtina: vicino al cantiere della stazione inaugurata per i 150 anni dell’unità d’Italia. In uno spiazzo di terra rossa che sembra un campo da tennis, all’ombra delle torri di mattoncini della stazione, il comune e la Croce rossa hanno montato dieci tende per accogliere circa 150 migranti. Flavio Ronzi lo aveva annunciato il 12 giugno. Poi l’assessora ai servizi sociali Francesca Danese aveva confermato. “È una soluzione temporanea”, aveva spiegato, per far fronte all’emergenza. “Stiamo lavorando a una soluzione permanente sempre nei pressi della stazione, che però va allestita. Si tratta di un immobile di proprietà delle ferrovie dello stato che sarà destinato ai transitanti”.

Le tende bianche in uno spiazzo polveroso ricordano i campi profughi del Sudan e del deserto

Solo pochissimi migranti però hanno deciso di andare a dormire nella tendopoli e i mediatori culturali hanno dovuto faticare per convincerli. Secondo la Croce rossa, nella struttura hanno dormito circa 80 migranti, ma noi ne abbiamo contati molti di meno il 14 giugno.

Le tende bianche in uno spiazzo polveroso ricordano i campi profughi del Sudan e del deserto. I migranti non vogliono andare nella tendopoli, temono che la struttura gestita dal comune comporti qualche forma di registrazione e non si fidano delle autorità. Ieri fuggivano dalla polizia, oggi non riescono a credere che l’offerta d’aiuto sia autentica.

D’altro canto le autorità locali devono invocare una situazione di emergenza, in modo da ottenere il via libera del governo, impegnato in un braccio di ferro con l’Unione europea per l’approvazione dell’agenda sull’immigrazione che prevede il ricollocamento dei richiedenti asilo nei diversi stati dell’Unione. Per questo gli amministratori locali fanno finta che il fenomeno dei transitanti sia nuovo e che sia provocato solo dalla chiusura delle frontiere. Non lo mettono in relazione, per esempio, con lo sgombero forzato dell’insediamentodi Ponte Mammolo, che da tempo ospitava le persone in transito.

Flavio Ronzi insiste sul fatto che si tratta di un intervento umanitario dettato dall’emergenza e che i migranti non devono temere: “A noi non importa lo status, non lo chiediamo, per noi sono solo persone che hanno bisogno di un aiuto umanitario”.

Tuttavia Gianfranco Schiavone spiega: “Se le istituzioni vogliono intervenire in maniera efficace, devono essere il più informali possibile, devono capire che l’aiuto umanitario è separato dall’attività di controllo”.

Migranti a Saint Ludovic, al confine tra Italia e Francia, il 15 giugno. (Eric Gaillard, Reuters/Contrasto)

Quale Europa? Osman e Munir, intanto, sono arrivati a Ventimiglia e hanno trovato la polizia francese schierata al confine ad accoglierli. Le autorità francesi hanno negato di aver sospeso Schengen, ma gli italiani li accusano di aver intensificato i controlli al confine per ridurre il massiccio flusso di migranti in entrata causato dalla chiusura delle frontiere da parte di Germania e Austria. Decine di migranti hanno manifestato, si sono messi a gridare slogan davanti agli uffici di frontiera, mostrando cartelli su cui c’era scritto: “Lasciateci passare, non rimarremo in Francia”, oppure “L’Europa è la patria dei diritti umani, ma quali diritti umani?”.

Il 13 giugno anche i migranti che protestavano a Ventimiglia sono stati caricati dalla polizia che li  voleva disperdere e voleva mettere fine alle proteste. Ma non sono tornati indietro.

Si sono rifugiati sugli scogli, assistiti da alcune organizzazioni umanitarie. L’Europa che respinge, poi porge la mano dell’assistenza umanitaria: è la vecchia contraddizione che dura in Europa da più di 25 secoli tra Creonte e Antigone, tra chi ha a cuore il bene del governo e chi invece tenta di salvaguardare i diritti fondamentali delle persone.

Un centinaio di persone hanno dormito sulla scogliera davanti a Ventimiglia il 13 giugno, avvolti da coperte termiche per proteggersi dal freddo e dall’umidità. Le autorità hanno provato a convincerli ad andarsene anche con le buone, hanno mandato dei mediatori culturali, ma non ci sono riusciti. I migranti non sono disposti a tornare indietro, non sono disposti a rinunciare al loro progetto. Hanno attraversato mari e deserti, torture e privazioni, non si faranno fermare dalla polizia francese.  

Osman e Munir alle sei di mattina hanno preso un taxi e sono arrivati in Francia, solo dieci minuti e si sono lasciati alle spalle un altro confine.

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