Il rumore degli aerei militari che volano bassi sulla città entra nelle orecchie come un allarme: il lungomare è affollato di persone che si affrettano a tornare a casa. La notizia del tentato colpo di stato in Turchia ha preso di sorpresa quelli che a Izmir erano usciti a cercare il fresco nelle stradine di Alsancak, l’antico quartiere dei commercianti genovesi e greci vicino al porto.

L’atmosfera vacanziera e spensierata della più europea delle città turche s’interrompe improvvisamente: in mezz’ora si svuotano i locali che fino a poco prima erano affollati di ragazzi, che bevevano pinte di birra e bicchierini di Yeni Raki; si svuota il viale davanti al golfo, il Kordon, con le famiglie a passeggio e i gruppetti di ragazzi seduti al fresco sul prato.

Ezgi, una ragazza turca che ho conosciuto solo qualche giorno prima, è lucida: “Prendi tutti i soldi che puoi dal bancomat, è in corso un colpo di stato. Andiamo a comprare del cibo”. Non si capisce molto di quello che sta succedendo ad Ankara e a Istanbul; l’esercito ha interrotto le trasmissioni della tv di stato, i carri armati sono scesi in strada, hanno chiuso il ponte sul Bosforo. Internet va e viene, ma è da internet che ci arrivano le poche informazioni che riusciamo a raccogliere.

L’appello di Erdoğan

È sveglia, Ezgi, o molto preparata a un’evenienza come questa: mentre io sto ancora riflettendo su cosa significhi esattamente un colpo di stato, lei e una sua amica sono già schizzate fuori di casa e ci trascinano a ritirare soldi e a comprare provviste. La città in mezz’ora si è svuotata, un silenzio surreale avvolge tutto, ci guardiamo le spalle mentre camminiamo. Per strada non c’è più nessuno.

Arriviamo al bancomat, a due isolati dalla vecchia casa greca in cui siamo ospitati, prendiamo i soldi e poi torniamo indietro e ci chiudiamo dietro le spalle la porta di legno e ferro battuto: le mattonelle esagonali bianche e nere sembrano muoversi come onde, deve essere il caldo umido di Izmir che con questa agitazione è ancora più insopportabile. Il silenzio che arriva dalla strada esaspera tutto.

Erdoğan è scappato, è a Marmaris, è andato in Germania, atterrerà in Italia. Le notizie si rincorrono, frammentate, incomprensibili

Non abbiamo la tv, Ezgi cerca di vederla sul suo iPad. Twitter va e viene, Facebook va e viene. Ci arrivano decine di messaggi dall’Italia. “Erdoğan è scappato, Erdoğan è a Marmaris, Erdoğan è andato in Germania, Erdoğan atterrerà in Italia, Erdoğan ha chiamato la Cnn con Facetime, Erdoğan sta tornando a Istanbul, Erdoğan ha detto ai suoi sostenitori di scendere in strada”, le notizie si rincorrono, sono frammentate, incomprensibili. Chiamiamo il consolato italiano che ci chiede di non uscire di casa, poi dalla strada si alza un’improvviso vociare: clacson, urla. Sembrano festeggiamenti.

Dapprima penso che i sostenitori del Partito popolare repubblicano (Chp), che a Izmir è molto forte, siano scesi in piazza per appoggiare l’esercito nel colpo di stato, poi capisco che sono i sostenitori di Erdoğan, per rispondere all’appello lanciato dal presidente. È bizzarro che proprio lui, ostile ai social network e ai mezzi d’informazione, abbia usato i social network e la tv per chiamare a raccolta i sostenitori. Anche l’opposizione si è schierata contro i militari, contro il colpo di stato.

Sia i filocurdi del Partito democratico del popolo (Hdp) sia i kemalisti del Chp hanno condannato il colpo di stato. Grida festanti arrivano dalla strada. La classe media turca, quella che in questi ultimi tredici anni ha potuto comprare un appartamento, la tv, l’auto nuova, grazie ai ritmi sostenuti della crescita economica, non vuole rimettere in discussione tutto. Scende in piazza con bandiere rosse, con le bandiere della Turchia. A Izmir non c’è notizia di scontri: i sostenitori di Erdoğan occupano le strade con caroselli, sfilate e gigantesche bandiere. Intanto a Istanbul e ad Ankara la situazione è ben più violenta: i morti per le strade sono decine, centinaia.

Il sogno di Nour

“Chissà come stanno i nostri amici siriani a Basmane?”, penso, mentre guardo le pale del ventilatore girare a vuoto sul soffitto di legno della stanza. Solo poche ore prima eravamo a casa di Nour, una ragazza siriana di origini palestinesi, a parlare di Damasco, della guerra civile siriana, di Bashar al Assad, dei jihadisti del Fronte al nusra, di come la sua famiglia sia riuscita a fuggire dalla Siria e di come non sia riuscita, invece, a raggiungere l’Europa.

Nour ha perso l’uso delle gambe per un’infezione, ed è scappata da Damasco con sua madre e suo fratello, senza dirlo al padre, che non era d’accordo, quattro anni fa. Il sogno della madre di Nour è che la figlia possa essere operata alla spina dorsale in un ospedale neurologico tedesco, e possa riprendere l’uso delle gambe, o che almeno possa seguire delle sessioni quotidiane di fisioterapia.

Tra i vicoli di Basmane, Izmir, marzo 2016. (Valerio Muscella)

Per questo ha affrontato il rischio di una fuga rocambolesca, con la ragazza che è stata portata in braccio per tutta la notte nel tragitto che li ha portati fuori del paese. “Avevamo paura che la sedia a rotelle facesse rumore e ci facesse scoprire dalle guardie alla frontiera”, ci aveva spiegato Nour. “Per questo mi hanno portato in braccio per tutta la notte lungo il cammino”.

Dopo aver provato per tre volte ad attraversare il tratto di mare che collega la Turchia alla Grecia, Nour e la sua famiglia si sono stabiliti a Basmane, uno dei quartieri operai di Izmir, un labirinto di vecchie case e di stradine che si arrampicano sulla collina. Ma non hanno rinunciato al progetto di arrivare oltre il Mediterraneo, nonostante l’accordo tra la Turchia e l’Unione europea sui migranti del 18 marzo renda tutto più complicato.

Un’associazione di volontari internazionali sta aiutando Nour a raccogliere online i soldi necessari per raggiungere la Germania dove potrà operarsi. “Voglio continuare i miei studi, voglio diventare un giudice”, ci aveva detto Nour, sorridente e determinata seduta per terra nel saloncino della sua casa di Basmane.

Una città nella città

Intorno alla stazione ferroviaria di Basmane negli ultimi anni sono nati ristoranti e caffè gestiti dai siriani, in quello che è diventato il centro nevralgico del traffico di esseri umani dalla Turchia alla Grecia. Un giro d’affari miliardario, che si è ridotto dopo l’accordo di marzo tra Bruxelles e Ankara, ma che non si è mai veramente arrestato. A Basmane si può comprare un passaggio verso l’Europa per una tariffa che va dai 500 ai 1.500 dollari, a seconda delle stagioni.

Qui si possono comprare i giubbotti salvagente, i motori per i gommoni e anche i passaporti falsi. “Con cinquecento euro si può comprare un documento falso per l’Europa”, confermano i siriani che incontriamo. Città nella città, Basmane è diventata la casa di migliaia di siriani a Izmir.

“Come stai Nour?”, digito un messaggio su Facebook per sapere come vanno le cose sulla collina, mentre i turchi sono scesi in piazza contro i militari. “Bene, stiamo bene, ma siamo molto spaventati. Non siamo venuti in Turchia per trovarci in mezzo a un’altra guerra”, risponde la ragazza. “Ora le persone stanno scendendo in strada, i siriani stanno con Erdoğan”.

Allora mi viene in mente una frase che mi ha detto pochi giorni prima Irem, un’attivista turca che si occupa di assistenza legale ai profughi: “La sinistra in Turchia è contro gli immigrati siriani, è contro i profughi. Teme che i 2,75 milioni di siriani che vivono in Turchia, molti dei quali ferventi musulmani, possano ingrossare le file del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp), il partito islamico che governa il paese da tredici anni”.

Tra le strade di Basmane, il quartiere dei siriani a Izmir, febbraio 2016. (Valerio Muscella)

Pensavo ai ragazzi di Gezi park e a quelli di piazza Taksim, i ragazzi delle città turche che nel 2013 avevano chiesto più libertà e la modernizzazione del paese, quei ragazzi che sono stati messi a tacere con gli arresti, con la violenza della polizia e con l’ondata di repressione che è seguita a quella stagione di proteste. Facevo fatica a credere che quei ragazzi fossero diffidenti verso i profughi siriani.

Le parole di Irem mi avevano colpito, avevo pensato al laicismo come religione di stato della Francia e a tutti gli eccessi che ha generato come il divieto di indossare il velo a scuola, e mi era sembrato un paradosso molto interessante per spiegare le contraddizioni pericolose della Turchia contemporanea. “Il conflitto culturale in Turchia si gioca da sempre tra laici e musulmani”, aveva spiegato Irem. “Per questo i ceti laici, progressisti vedono nelle famiglie siriane residenti in Turchia una minaccia: sono molto religiose, le donne sono velate, hanno molti figli, rappresentano un’ulteriore possibilità di espansione del consenso di Erdoğan e del suo partito”.

Devono essere molto fragili le opposizioni in Turchia se invece di frequentare i siriani, che sono i lavoratori più sfruttati nelle fabbriche tessili e nell’agricoltura, ne hanno paura, avevo pensato, mentre Irem mi raccontava del razzismo che attraversa le classi più progressiste della Turchia, solo qualche giorno prima del colpo di stato.

In Turchia non c’è spazio per una dimensione dell’identità nazionale che sia plurale, meticcia. O si è turchi o si è stranieri

L’unico centro culturale per siriani di Izmir, Kap1lar, è stato fondato da un sindacalista turco discendente di africani. Yalcin ha la pelle nera, i capelli ricci e bianchi, i tratti morbidi e dolci del meticciato. Ma parla solo turco, un turco perfetto e incomprensibile per me. Il colore della sua pelle lo interroga da quando è nato. Non sa nulla delle origini della sua famiglia e dei suoi antenati che si sono stabiliti in Turchia due o trecento anni fa. “Vengo da una famiglia molto povera di contadini e a casa nostra non si parlava mai della nostra origine, né del colore della nostra pelle”, racconta.

In Turchia non c’è spazio per una dimensione dell’identità nazionale che sia plurale, meticcia. O si è turchi o si è stranieri. Ma in questo modo in molti hanno finito per sentirsi stranieri a casa loro. Yalcin ha fondato un’associazione per scoprire la storia degli afroturchi, i turchi che sono discendenti degli schiavi, deportati in Turchia dall’Africa per essere venduti al mercato.

Yalcin, che ha fondato un’associazione per scoprire la storia degli afroturchi. La foto è stata scattata a luglio del 2016. (Valerio Muscella)

“Non è chiaro nemmeno quanti siano gli afroturchi, migliaia credo, ma non ci sono statistiche, né studi ufficiali”, racconta. “Da quando ho fondato l’associazione, mi hanno contattato in tanti, alcuni studenti vogliono scrivere delle tesi di laurea sulla comunità afroturca, ma è davvero difficile avere accesso ai documenti ufficiali”.

I siriani vivono isolati nella loro condizione di difficoltà e di sfruttamento lavorativo

Yalcin, insieme a un gruppo di ragazzi di tutto il mondo, ha fondato un centro culturale nel cuore di Basmane, il quartiere dei siriani a Izmir. Un afroturco, diversi curdi e un gruppo composito di persone di origini diverse, che hanno conosciuto sulla loro pelle quanto possa essere escludente il nazionalismo turco, hanno aperto un centro culturale nel cuore del quartiere siriano di Izmir.

“Non ci sono centri simili a Kap1lar in Turchia, i siriani vivono isolati nella loro condizione di difficoltà e di sfruttamento lavorativo”. Perché questo è il dato più importante che caratterizza le storie dei profughi che vivono nel paese, spiega Yalcin, lo sfruttamento e l’isolamento.

Fino allo scorso gennaio i profughi siriani non potevano lavorare con un regolare permesso, e quindi trovavano lavori occasionali in nero e guadagnavano molto meno dei loro colleghi turchi, oppure mandavano a lavorare i loro figli. Poi da gennaio è stata introdotta una legge che consente ai profughi di chiedere un permesso di lavoro, ma in pochi ce l’hanno, perché è il datore di lavoro che deve farne richiesta. Anche per questo, il lavoro minorile è una piaga nel paese: secondo un rapporto dell’ong Human rights watch 400mila minori siriani non vanno a scuola in Turchia e molti di loro finiscono a lavorare nelle fabbriche o nei campi per contribuire al bilancio familiare.

Yalcin è sempre stato un operaio tessile: “Da quando mi sono trasferito a Izmir, da ragazzo, ho cominciato a lavorare nelle fabbriche, ho imparato il mestiere, ma facevo anche politica. Ho imparato che se si è soli, è più facile essere sfruttati. Per questo, quando negli ultimi anni le nostre fabbriche si sono riempite di siriani, pagati la metà dei turchi per fare il doppio del lavoro, ho cercato di costruire dei ponti tra loro e noi. In molti discriminavano i siriani, ci rubano il lavoro dicevano”. Yalcin racconta quello che è successo con ogni ondata migratoria in ogni paese del mondo. I ceti più bassi della società entrano in competizione con gli immigrati, accusati di fare concorrenza sleale.

Lo spazio per rifarsi una vita

Il sindacalista ha capito che non si trattava di emarginare gli ultimi arrivati, ma di includerli nelle rivendicazioni. “È molto difficile fare delle battaglie sindacali tutti insieme, i siriani sono molto spaventati dalla possibilità di perdere il lavoro o il diritto di vivere in Turchia. I turchi sono diffidenti”, spiega. Per questo Yalcin si è messo a raccogliere aiuti per i siriani del quartiere e a distribuirli alle famiglie più bisognose di Basmane. Nel quartiere tutti conoscono Yalcin e la sua casa è diventata un punto di riferimento per tutti, un ponte, appunto.

Al piano inferiore della vecchia casa greca in cui Yalcin ha il suo laboratorio di sartoria, c’è la sede del centro culturale Kap1lar. “Era tutto diroccato questo posto, lo abbiamo rimesso in piedi, pulito, rassettato e ora qui ogni giorno si svolgono delle attività culturali: laboratori per i bambini, scuole di lingua, assistenza legale, proiezioni cinematografiche, feste. Si fa vita di comunità”, racconta Valerio, un fotografo italiano che da qualche mese frequenta il centro, mentre ci mostra le stanze ripulite della struttura, le foto fatte dai bambini appese a un filo sulla parete, il frigorifero della cucina con le scritte in turco, in arabo e in inglese.

“L’idea è quella di superare l’isolamento in cui vive ognuna di queste persone, ma anche di mettere in discussione un modello assistenziale verso i profughi, che è così diffuso in questo momento. I profughi non hanno bisogno di aiuti, hanno bisogno che gli sia lasciato lo spazio per rifarsi una vita”, spiega mentre ci mostra quello che era il patio della vecchia casa, in procinto di essere attrezzato per diventare un orto e allo stesso tempo un giardino per affrontare l’estate. I bambini scorrazzano nel centro, sorvegliati da Ayse, una ragazza di Aleppo che parla perfettamente il turco, l’arabo e l’inglese e che a Kap1lar lavora tutti i giorni.

“Giorni fa è venuto a Kap1lar un volontario americano che voleva distribuire banane a tutti i bambini siriani del quartiere. A noi veniva da ridere, ma allo stesso tempo ci faceva anche rabbia. Questo volontario delle banane è un po’ lo stereotipo del pietismo che nutriamo verso i profughi, li descriviamo come persone bisognose, che devono essere aiutate, e in questo mettiamo in atto comportamenti neocolonialisti”, afferma Valerio.

Due attivisti sistemano il giardino di Kapilar, a Izmir, febbraio 2016. (Valerio Muscella)

I siriani in Turchia, così come qualsiasi gruppo di profughi in qualsiasi paese del mondo, spiega, non hanno bisogno di sostentamento materiale, possono procurarselo, anche se le loro condizioni di vita sono peggiori di quelle dei residenti. I siriani in Turchia hanno bisogno di avere informazioni sulla propria situazione, hanno bisogno di imparare la lingua, hanno bisogno di trovare un lavoro e d’inserirsi in una comunità che li aiuti a sopportare le difficoltà dell’esilio.

Contro il lavoro minorile

“Qui non esistono siriani, turchi, curdi, europei, africani, qui non esistono differenze: siamo tutte persone che insieme vogliono costruire un mondo più giusto”, afferma Yalcin al termine di una lunga conversazione, in cui Chris, un ragazzo italobritannico originario di Venezia, e Serkan, un ragazzo curdo di etnia zaza, ci hanno fatto da interpreti. Chris è arrivato a Izmir da Venezia durante un viaggio alla scoperta della Turchia, e non se n’è più andato, prima si è messo a dare lezioni di inglese e poi ha cominciato a lavorare in progetti per i minori siriani sfruttati nelle fabbriche tessili della città.

“Con due amici curdi, entrambi maestri della lavorazione del cuoio, abbiamo da poco aperto un laboratorio nella zona del mercato di Izmir. Si chiama Deri’Da. Produciamo borse, portafogli, diari”, racconta Chris. “L’idea dietro il progetto è di avviare un percorso formativo per ragazzi minorenni siriani che al momento sono sfruttati nelle fabbriche tessili di Izmir”.

In Turchia si stima che ci siano migliaia di minori che lavorano e mantengono le loro famiglie. Lavorano in media 60 ore alla settimana per circa 600 lire turche al mese (180 euro). “Lavorano in condizioni difficili e dannose per la salute, svolgono lavori pericolosi e sempre in nero, spesso non li pagano”, racconta.

Le idee sono tante, le risorse sono poche e il senso di precarietà che circonda questi progetti è forse il nemico più insidioso che si deve affrontare. In Turchia non ci sono programmi per l’accoglienza dei profughi e tutte queste attività non sono favorite dal governo. Dopo il fallito colpo di stato e l’ondata di epurazioni, arresti e licenziamenti che ne sono seguiti, spazi di libertà come questo sembrano ancora di più in pericolo.

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