18 giugno 2018 10:12

Secondo un sondaggio condotto da Demos nel novembre del 2017, l’ostilità nei confronti dei migranti in Italia alla fine dello scorso anno era in aumento: un italiano su due diceva di considerare gli immigrati un pericolo e di esserne spaventato. Non si era mai raggiunta una percentuale così alta nel paese.

Durante la campagna elettorale per le legislative all’inizio di quest’anno, il leader della Lega Matteo Salvini, oggi ministro dell’interno, aveva promesso una linea dura sull’immigrazione, usando slogan come “Aiutiamoli a casa loro” e “Prima gli italiani”, che si sono imposti nel discorso pubblico. E nei primi giorni del suo incarico di governo, Salvini ha ribadito la volontà di ridurre gli arrivi e aumentare i rimpatri.

Eppure i migranti arrivati nel 2018 sulle coste italiane sono quasi l’80 per cento in meno di quelli dello stesso periodo dell’anno precedente. Secondo i dati dello stesso ministero dell’interno, nei primi sei mesi del 2018 sono arrivate in Italia via mare 14.441 persone, mentre nello stesso periodo dell’anno precedente ne erano arrivate 64.033.

Il fatto è che l’ostilità verso i migranti è stata alimentata da discorsi che incitano all’odio, notizie false, luoghi comuni e stereotipi che in alcuni casi si sono trasformati in veri e propri miti. Proviamo ad analizzarne quattro con l’aiuto di dati ed esperti.

L’Italia è stata lasciata da sola sull’immigrazione?

Spesso si dice che l’Italia è stata lasciata da sola di fronte all’arrivo di migranti e profughi dopo il 2011, quando è ricominciata l’ondata migratoria dal Nordafrica in seguito alla cosiddetta primavera araba e agli sconvolgimenti politici che si sono prodotti nei paesi dell’Africa settentrionale e del Medio Oriente. Dopo il 2011 infatti sono saltati gli accordi che l’Unione europea aveva stipulato con molti paesi extraeuropei per chiudere le frontiere esterne e impedire alle imbarcazioni dei rifugiati di raggiungere le coste del continente. Uno di questi era il Trattato di amicizia tra Italia e Libia firmato nel 2008 dal governo di Silvio Berlusconi e dal presidente libico Muammar Gheddafi.

Nel 2015 si è parlato della “crisi dei rifugiati” soprattutto per i paesi del Nordeuropa, perché la pressione delle migliaia di persone in fuga dalla Siria in guerra ha aperto la cosiddetta rotta balcanica tra la Turchia e l’Europa settentrionale. Un tragitto che nel 2015 è stato percorso da più di un milione di profughi, non solo siriani, ma anche iracheni e afgani. La maggior parte è arrivata in Germania e nei paesi del Nordeuropa come Svezia e Norvegia.

Questa nuova pressione migratoria – che ha interessato in particolare la Grecia e i paesi dei Balcani – ha fatto saltare il regolamento di Dublino III, il sistema comune di asilo europeo, che stabilisce che le richieste di asilo devono essere presentate nel primo paese d’ingresso in Europa. Nell’agosto del 2015, nel pieno della crisi, la cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato che avrebbe sospeso la norma per accogliere i rifugiati siriani arrivati nel paese.

Nel 2015, alcuni paesi come la Francia, hanno cominciato a ripristinare i controlli alle frontiere interne dell’Unione europa, con la motivazione di voler sorvegliare i confini per evitare attentati. Così i migranti e i profughi che, una volta arrivati in Italia dalla rotta del Mediterraneo, lasciavano il paese per raggiungere le loro famiglie in altri paesi europei sono rimasti bloccati alle stazioni ferroviarie italiane e alla frontiera settentrionale dell’Italia, creando situazioni di emergenza a Roma, a Milano, a Como, al Brennero, a Ventimiglia, a Udine.

In particolare la Francia ha cominciato una violenta politica di respingimento dei profughi alla frontiera al valico tra Ventimiglia e Mentone. Contemporaneamente, la Commissione europea ha proposto ai diversi paesi europei di ripartire i richiedenti asilo attraverso un sistema di quote stabilite sulla base del pil e della popolazione di ogni stato e ha istituito gli hotspot nei paesi di frontiera, come l’Italia e la Grecia, cioè dei centri d’identificazione dei migranti allo sbarco. L’istituzione degli hotspot ha permesso l’identificazione del 99 per cento dei migranti che sbarcano sulle coste italiane.

Prima del 2015, infatti, l’Italia non identificava molti dei migranti che arrivavano sulle sue coste e in questo modo gli permetteva di raggiungere i paesi del Nordeuropa senza rimanere incastrati nelle maglie del regolamento di Dublino. Ma dopo il 2015 il sistema italiano è saltato e le persone sono di fatto state costrette a fare domanda di asilo in Italia, o al massimo a fare richiesta di ricollocamento in altri paesi europei (possibilità concessa solo ai siriani e agli eritrei). Successivamente la Commissione europea ha proposto una bozza di riforma del regolamento di Dublino, per superare il principio che costringe i paesi di frontiera ad accogliere tutti i migranti arrivati.

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Al progetto di riforma si è lavorato per due anni e dopo lunghi negoziati nel novembre del 2017 il parlamento europeo ha approvato una riforma giudicata molto positivamente dall’Italia e dai paesi del Mediterraneo, perché prevedeva quote obbligatorie per il ricollocamento dei migranti. Ma la riforma è stata bloccata dal Consiglio europeo, cioè dai capi di stato e di governo dell’Unione europea, che non hanno trovato un accordo proprio sulle quote e sul superamento del principio di primo ingresso.

La decisione definitiva del Consiglio dovrà essere presa in un vertice europeo il 28-29 giugno. Il nuovo governo italiano sostenuto dalla Lega e dal Movimento 5 stelle ha respinto la proposta di riforma e non si è nemmeno seduto al tavolo dei negoziati. Salvini ha detto di sentirsi vicino alle posizioni del presidente ungherese, Viktor Orbán, che è sempre stato contrario alle quote obbligatorie di ripartizione dei migranti.

Quindi da una parte è vero che negli ultimi tre anni l’Italia e la Grecia sono state lasciate da sole di fronte alla cosiddetta crisi dei migranti e dei rifugiati del 2015 (che in Italia è cominciata un anno prima, nel 2014), ma allo stesso tempo si è lavorato a un progetto che eliminasse il problema all’origine: la riforma del regolamento di Dublino. Inoltre all’interno dell’Unione europea ci sono stati atteggiamenti diversi da parte dei suoi 28 stati. La Germania, che è il paese che ha ricevuto più richieste di asilo negli ultimi anni, si è dimostrata sempre disponibile all’adozione delle quote. Sono stati in particolare i governi dell’Europa orientale, quelli dei paesi del gruppo di Visegrád, a opporsi alle quote di ripartizione e all’inserimento di principi di condivisione delle responsabilità e di solidarietà, gli stessi governi con cui il ministro dell’interno Salvini sembra essere più in sintonia.

Nel marzo del 2016, grazie a un accordo tra Turchia e Unione europea, la rotta dei Balcani si è praticamente chiusa e gli arrivi verso la Grecia si sono ridotti drasticamente. La rotta del Mediterraneo centrale, quella che collega la Libia all’Italia è rimasta l’unica aperta per raggiungere l’Europa. Ma dal febbraio del 2017 il governo guidato da Paolo Gentiloni ha trovato un’intesa con il governo di Tripoli per chiudere anche quel percorso. Questo ha portato a una riduzione drastica degli arrivi sulle coste italiane.

L’intesa è stata molto criticata dai gruppi che si occupano della difesa dei diritti umani: alcune inchieste infatti hanno messo in luce che sono stati coinvolti dei gruppi di trafficanti per bloccare le partenze di migranti in Libia e che il periodo di incarcerazione dei migranti fermati si è esteso con violazioni molto gravi dei diritti fondamentali delle persone. In termini assoluti sono diminuiti i morti lungo la rotta, ma la mortalità è aumentata. Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), i migranti che muoiono tentando la traversata del Mediterraneo sono 1 su 33.

Nonostante la riduzione degli arrivi, in Italia si continua a parlare di un’invasione. Ma in termini assoluti non è l’Italia il paese che ospita più rifugiati e richiedenti asilo: è la Germania, che nel 2017 ha concesso lo status di rifugiato a 325.370 persone, dieci volte di più delle 35.130 dell’Italia (che pure è il terzo paese per numero di rifugiati accolti, dopo la Francia).

Anche in termini relativi, l’Italia non è ai primi posti. I dati del 2017, diffusi dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), offrono un quadro radicalmente diverso da quello di solito descritto dai mezzi d’informazione e dai politici. In Europa il paese con più rifugiati ogni mille abitanti è la Svezia con 23,4 rifugiati, seguita da Malta con 18,3. L’Italia è undicesima con 2,4 rifugiati ogni mille abitanti. Nel mondo i primi cinque paesi con più rifugiati sono extraeuropei, solo al sesto posto si piazza la Germania. Se si parla poi di immigrati in generale, e cioè di cittadini stranieri che risiedono nel paese in maniera stabile, l’Italia ospita cinque milioni di immigrati che corrisponde all’8 per cento della popolazione, in linea con i livelli degli altri paesi europei. Lo stato europeo che ha più immigrati è la Spagna dove gli immigrati sono il 10 per cento della popolazione, seguito dalla Germania.

Si possono rimpatriare cinquecentomila persone?

Tra le prime misure annunciate dal ministro dell’interno e vicepresidente del consiglio Matteo Salvini c’è il rimpatrio di 500mila migranti irregolari. “Per gli immigrati clandestini è finita la pacchia, preparatevi a fare le valigie in maniera educata e serena”, ha detto Salvini durante un comizio, poco dopo aver assunto l’incarico di governo. Molti hanno fatto notare però che sarà molto difficile che il ministro possa tener fede alle sue promesse, perché non ci sono accordi di rimpatrio con i paesi di origine dei migranti e perché i rimpatri forzati sono molto costosi.

Tra il 2013 e il 2017, secondo un recente studio dell’Ispi, l’Italia ha rimpatriato solo il 20 per cento delle persone a cui è stato consegnato un foglio di via. Ma la principale ragione dell’inefficacia dei rimpatri è il numero di nazionalità diverse dei migranti che arrivano in Italia: più di sessanta paesi. L’Italia ha emesso decreti di espulsione in massima misura nei confronti di persone provenienti dal Nordafrica (49 per cento) e dall’Africa subsahariana (18 per cento).

Migranti a Ventimiglia, al confine francese, 8 agosto 2017. (Marco Bertorello, Afp)

“Roma è riuscita a sottoscrivere solo pochi accordi di riammissione con molti dei paesi africani” e anche quando l’ha fatto “la loro applicazione da parte di governi e autorità locali è discontinua e disomogenea”, afferma il rapporto dell’Ispi. Il giornalista Fabrizio Gatti sull’Espresso, in un articolo del 17 maggio, ha dimostrato che anche la cifra di immigrati irregolari citata dal ministro dell’interno è fortemente sovrastimata.

Non sappiamo esattamente quanti migranti irregolari risiedono al momento sul territorio italiano, ma se si sommano le richieste d’asilo respinte dalle commissioni territoriali dal 2014 a oggi si arriva a una cifra di poco superiore alle centomila persone. Inoltre, Gatti ha calcolato che per eseguire 500mila rimpatri ci vorrebbero “27 anni di voli, senza nemmeno un’ora di sosta, e oltre un miliardo e mezzo di spesa, più il costo per diarie, indennità di missione, vitto e alloggio degli agenti di scorta”.

Le ong sono taxi del mare?

La formula “taxi del mare” l’ha inventata nell’aprile del 2017 Luigi Di Maio, leader del Movimento 5 stelle, oggi ministro del lavoro e vicepresidente del consiglio. Secondo Di Maio la presenza delle navi delle ong davanti alle coste libiche sarebbe,un incentivo a partire per chi vuole raggiungere l’Europa. Quelle navi, ha detto in un’intervista, “prendono dei migranti in mare, non li salvano mentre stanno per affogare; per me sono taxi”.

Un ricercatore dell’Istituto di studi politici italiano (Ispi) ha deciso di verificare quell’accusa esaminando i dati sull’attività delle navi e le partenze dalla Libia. La sua conclusione è che i taxi del mare non esistono. “Dal punto di vista comunicativo”, spiega il ricercatore dell’Ispi Matteo Villa, esperto di politiche europee e migrazioni, “la suggestione dei ‘taxi del mare’ è efficace nel dare l’idea che compiere soccorsi vicino alle coste libiche possa incentivare la partenza dei barconi con i migranti. Ma nella pratica è vero il contrario. I dati mostrano che tra il 2015 e oggi le attività delle ong non hanno fatto da pull factor (cioè non sono un fattore di attrazione) e non sono correlate con l’aumento dei flussi. Che le ong operassero in mare o meno i flussi non ne erano influenzati”.

D’altra parte, sostiene l’Ispi, il governo italiano sapeva che le milizie libiche avevano un controllo forte e accentrato sul traffico di esseri umani, e per questo aveva firmato il Memorandum d’intesa con Tripoli. La strategia di Roma era coinvolgere le milizie nella gestione dei flussi attraverso la mediazione del governo di Fayez al Serraj. “Un elemento interessante è che il 15 luglio, quando la milizia Dabbashi a Sabrata ha invertito il flusso migratorio, cioè ha bloccato le partenze, tutte le navi delle ong erano in mare. Quindi le partenze dalla Libia si sono fermate molto prima che le ong cominciassero a ritirarsi”, afferma Villa. “Non c’è una correlazione neanche minima tra le due cose. I dati dicono che la presenza delle ong non ha aumentato le partenze”.

Gli immigrati ci rubano il lavoro?

Uno dei miti più radicati è quello che assegna agli immigrati un ruolo di concorrenti per gli italiani sul posto di lavoro. A rispondere a questa paura ci ha pensato il Rapporto sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Moressa. Secondo lo studio del 2017, agli immigrati sono riservati solo i lavori non qualificati, in parte rifiutati dagli italiani. Nell’agricoltura, per esempio, la maggior parte dei braccianti è di origine straniera, mentre quasi il 90 per cento degli agricoltori specializzati è cittadino italiano.

Gli stranieri non riducono l’occupazione degli italiani, ma assumono progressivamente le posizioni meno qualificate abbandonate dagli italiani, soprattutto nei servizi alla persona, nell’edilizia e in agricoltura: settori in cui il lavoro è prevalentemente manuale, più pesante, con paghe basse e contratti che non offrono nessuna stabilità.

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Dai dati emerge che più di un terzo degli immigrati svolge lavori non qualificati (il 36 per cento, contro il 9 per cento degli italiani), il 29,3 per cento lavora come operaio specializzato e solo il 6,7 per cento è un professionista qualificato. Tra i lavori che sono più diffusi tra gli immigrati ci sono alcune particolari categorie: il 74 per cento dei collaboratori domestici è straniero, come il 56 per cento delle badanti e il 51 per cento dei venditori ambulanti. E ancora: il 39,8 per cento dei pescatori, pastori e boscaioli è d’origine straniera, come il 30 per cento dei manovali edili e dei braccianti agricoli.

Lo studio conclude quindi che “la crescente scolarizzazione della popolazione italiana e la maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro ci hanno spinti verso professioni a più alta specializzazione. I dati Istat sul mercato del lavoro dimostrano che l’occupazione immigrata e quella autoctona in Italia sono parzialmente concorrenti e prevalentemente complementari”.

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Internazionale 1260, 15 giugno 2018

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