01 ottobre 2019 11:14

Le sembra a volte di sentire la voce di suo marito. Quando si sveglia al mattino le sembra di essere ancora a Sabratha, in Libia, dove ha vissuto dieci anni. Invece ogni giorno quando apre gli occhi e i suoi due figli le gironzolano intorno e le saltano al collo pieni di energia, la assale una sensazione di sfinimento, si sente come un animale in gabbia. Le cose peggiori le ha lasciate dietro alle spalle, ma fatica a guardare avanti.

Vive da quasi due anni in un edificio di mattoni rossi nella periferia di Medenine, una città nel sud della Tunisia, al confine con la Libia: non può lavorare, se non in nero. Non ha soldi né documenti che le permettano di viaggiare. “Al centro di accoglienza gestito dalla Mezzaluna rossa e dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim) mi danno trenta dinari alla settimana, bastano per comprare un po’ di riso per i bambini, finiscono presto”. Il marito la chiama ogni sera. Saluta i bambini, sempre con lo stesso tono di voce, come un rituale.

Si chiama Fatoumata Camara, il marito Keletigui Keita: sono originari della Guinea. Hanno due figli di cinque e due anni. Lui vive in Italia, lei con i bambini in Tunisia: sono stati separati subito dopo essere stati soccorsi da una nave umanitaria nel Mediterraneo. Una serie di eventi avvenuti nell’arco di qualche minuto le hanno cambiato la vita, forse per sempre.

Procedura bloccata
Fa fatica a ricordarne la sequenza, anche se nella sua testa ha provato a ripercorrerla molte volte. Il gommone sul quale viaggiavano si è sgonfiato, lei è caduta in mare insieme a uno dei suoi figli. Pensava di morire. Ricorda di averlo stretto a sé, di aver avuto paura che sfuggisse alla sua presa. Poi sono arrivati dei soccorritori, il sollievo di essere stata salvata e portata sul ponte della nave. I suoi cari erano con lei, sani e salvi.

“Era una nave grande, accogliente, ci hanno detto che ci avrebbero portato in Italia, ma poi mi hanno comunicato che mio figlio maggiore aveva l’acqua nei polmoni e doveva essere trasferito immediatamente all’ospedale. Io dovevo andare con lui, li abbiamo implorati di non separarci, ma non c’è stato niente da fare: mi hanno fatto salire su un elicottero insieme ad altre dieci persone”, ricorda. Ha sperato che la portassero in un ospedale italiano, invece è arrivata a Sfax, in Tunisia, e dopo qualche giorno è stata trasferita nel centro di accoglienza di Medenine.

Suo marito Keletigui ora vive a Caserta, in Italia, dove ha chiesto e ottenuto la protezione umanitaria, mentre lei è bloccata in Tunisia, in attesa di una procedura di ricongiungimento familiare che non arriva mai. “Non mi lasciate qui, non so più che rispondere ai miei figli quando mi chiedono quando potranno rivedere il padre, abbiamo parlato con l’Oim, ma sembra tutto fermo”, racconta in lacrime.

Multe per gli irregolari
Fatoumata vive con altre famiglie nel centro dell’Oim di Medenine: tra loro ci sono molte persone partite dalla Libia, soccorse dai guardacoste tunisini e riportate indietro in Tunisia. “Da gennaio a giugno il numero delle persone soccorse in mare e che arrivano via terra dalla Libia in Tunisia sono aumentate, ma da giugno ad agosto sono di nuovo diminuite”, racconta Wijdi Benmhamed, portavoce dell’Oim a Zarzis, nel sud della Tunisia. Nella zona ci sono diversi centri gestiti da Unhcr, Oim e Mezzaluna rossa. “Ci sono due punti di ingresso alla frontiera tra Libia e Tunisia, sono le autorità tunisine a chiamarci al momento di nuovi arrivi e noi ci occupiamo della loro accoglienza”, continua Benmhamed.

Centro di accoglienza della Mezzaluna rossa e dell’Unhcr a Medenine, agosto 2019. (Annalisa Camilli per Internazionale)

“Poi ci sono i migranti partiti dalla Libia e soccorsi dalla guardia costiera tunisina, oppure dai pescatori o dalle navi cargo: a Zarzis nel 2019 sono state fatte sbarcare 118 persone soccorse in mare, invece tra Sfax e Zarzis circa cinquecento. Una volta sbarcate queste persone entrano nei centri di accoglienza in cui possono stare per sessanta giorni al massimo”. I centri di accoglienza sono pochi e hanno una capacità molto limitata: “Ci sono persone che hanno chiesto lo status di rifugiato, sono nei centri da più di cinque mesi, e questo crea una situazione di sovraffollamento”.

È in aumento il numero dei migranti che chiedono l’asilo in Tunisia, un paese che non ha ancora approvato una legge che garantisca questo diritto. Le autorità tunisine in ogni caso sono contrarie all’apertura di nuovi centri e non vogliono accettare gli stranieri nel paese. Per esempio nella regione di Medenine il governatore ha escluso che siano aperti nuovi centri. “Fanno sbarcare le persone nel sud, ma poi le trasferiscono a Tunisi”, spiega l’Oim.

“Nei centri vediamo situazioni drammatiche: persone che hanno alle spalle un passato complicato, alcune hanno perso dei familiari in Libia o durante la traversata. Altre sono state separate dai familiari durante i soccorsi”, spiega il portavoce dell’Oim. In ogni caso una minoranza dei migranti ospitati nei centri ottiene qualche forma di regolarizzazione, la maggior parte accede ai rimpatri volontari, o diventa irregolare. Si stima che in Tunisia vivano diecimila irregolari, anche se mancano cifre ufficiali. Per Paola Pace, portavoce dell’Oim, per gli irregolari il problema principale sono le multe: “Il governo esige dai migranti irregolari cifre abbastanza alte che non sono in grado di pagare”.

“Poiché in Tunisia non c’è una legge sul diritto d’asilo, le persone che vogliono chiedere protezione presentano un dossier al consiglio tunisino per i rifugiati: non possono essere espulse, ma nemmeno essere regolarizzate o lavorare”, spiega una funzionaria dell’ong Terre d’asile Tunisie. “Le persone che vivono in situazione irregolare in Tunisia non hanno neanche il diritto di lavorare, quindi alimentano lavoro nero, precarietà e sfruttamento. Nel paese gli stranieri sono impiegati molto spesso nei servizi, nei bar, nelle stazioni di servizio, le donne fanno le colf, in alcune zone diventano braccianti nei campi in condizioni di semischiavitù”.

Nancy Richmond, 25 anni, richiedente asilo nigeriana con sua figlia davanti al centro per famiglie di Medenine, agosto 2019. (Annalisa Camilli per Internazionale)

Il 23 settembre a New York, a margine dell’assemblea delle Nazioni Unite, il ministro degli esteri italiano Luigi Di Maio ha detto di voler stilare una lista dei porti sicuri in cui far attraccare le navi di soccorso, dopo aver incontrato il ministro degli esteri tunisino e quello algerino. La reazione della società civile tunisina a questo annuncio è stata piuttosto allarmata, il Forum tunisien pour les droits economiques et sociaux (Ftdes) ha sottolineato in un comunicato che nel 2018 la Tunisia aveva già rifiutato la proposta (della Francia in quel caso) di diventare un porto di sbarco per i migranti diretti in Europa, soccorsi nel Mediterraneo, e ha commentato dicendo che nel paese “le leggi non proteggono i migranti e i rifugiati e che la crisi in corso a Medenine ne è una prova”.

Le violenze della polizia tunisina
Una donna somala ha tentato il suicidio alla fine di agosto in un centro di accoglienza di Medenine, dopo che le autorità tunisine avevano respinto la richiesta di asilo, una risposta attesa per sei mesi. I casi di tentativi di suicidio, di malessere psicologico, depressione e autolesionismo sono frequenti tra i profughi che vivono in queste condizioni. Scappano da violenze e torture, spesso hanno già ricevuto il riconoscimento di status di rifugiati in altri paesi, ma in Tunisia sono come in un limbo. Estevan John è un richiedente asilo sudsudanese e racconta di essere scappato dai combattimenti tra milizie a Zuara, di aver camminato sei ore a piedi nel deserto, ma poi di essere stato arrestato dalla polizia tunisina che l’ha malmenato e tenuto in detenzione per quindici giorni alla frontiera, prima di spostarlo nel centro di accoglienza di Medenine.

Alcuni raccontano di essere arrivati in Tunisia dalla Libia da soli, a piedi, altri dicono di aver pagato dei trafficanti per essere trasportati con un taxi alla frontiera. “Quando siamo arrivati al confine, nel deserto, siamo scesi e abbiamo continuato a piedi. Abbiamo pagato mille dinari tunisini a persona per fare il viaggio da Tripoli”, racconta Mazen Nemiri, un richiedente asilo del Darfour. “Alla frontiera siamo stati arrestati dalla polizia tunisina, siamo stati in prigione per un mese, poi siamo stati portati alla Croce rossa e infine al centro di Medenine”, dove si trova da nove mesi.

Ci sono diversi minorenni come Ilyes Mohamed Mohatar che raccontano di essere stati picchiati dalla polizia tunisina al confine. La maggior parte dei richiedenti asilo non vuole rimanere in Tunisia, spera di ottenere i documenti e di poter viaggiare in maniera legale: ma alcuni progettano addirittura di tornare in Libia, per imbarcarsi verso l’Europa, altri ancora lavorano in nero per pagare la traversata dalla Tunisia all’Italia. “Qui non c’è lavoro, aspetto i documenti, se non li ottengo prendo la via del mare”, mi dice Mohatar, mentre si ripara all’ombra di un fico a pochi passi dal grande e anonimo edificio bianco in cui vive.

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