12 novembre 2019 11:03

“Quando sono entrato in Italia ho ringraziato dio e poi mi sono messo a ballare in mezzo alla strada”, racconta Tariq Abbas, un ragazzo pachistano di 26 anni, mentre mostra il punto esatto in cui è sceso dall’auto del passeur che qualche mese fa lo ha portato dalla Bosnia all’Italia, davanti a un bar sull’autostrada che dalla Slovenia conduce a Trieste. Aveva provato ad attraversare la frontiera tra Bosnia e Croazia quindici volte, senza riuscirci. Alla fine ha deciso di pagare un trafficante per essere portato in auto a destinazione, in Italia, insieme ad altre dieci persone. Si trovava da mesi nel campo governativo di Bira, un’ex fabbrica di Bihać, in Bosnia, dove è stato allestito un campo ufficiale dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim).

A Bira mancava tutto, racconta Abbas. L’acqua, i servizi, la fiducia negli altri. Risse e furti erano all’ordine del giorno in una situazione sempre più difficile. “Ero partito dal Pakistan un anno e mezzo prima e mi trovavo bloccato in Bosnia da mesi”. Così l’unica strada è stata quella di affidarsi a uno dei tanti passeur che frequentano il campo. “È pieno di persone che offrono di facilitare il viaggio, all’interno degli stessi campi in Bosnia”, racconta. Ha speso una cifra altissima: 3.500 euro per farsi portare prima a piedi e poi in auto dove voleva arrivare. Mentre percorre il sentiero che costeggia l’autostrada, Abbas mostra gli oggetti che altre persone hanno lasciato lungo la strada: zaini, sacchi a pelo, indumenti. Sono le tracce di un passaggio costante e silenzioso.

Una rotta di cui non si parla
L’8 novembre un ragazzo siriano di vent’anni è stato ritrovato senza vita nei boschi della Slovenia, a Iliza Bistrica, a pochi chilometri da Trieste. Come tanti prima di lui, come tanti dopo di lui, provava ad attraversare la frontiera, percorrendo una rotta che non è mai stata chiusa, nonostante l’accordo con il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan costato all’Unione europea sei miliardi di euro nel 2016 e malgrado la costruzione del muro tra Ungheria e Serbia voluto dal premier ungherese Viktor Orbán nel 2015. Il ragazzo siriano aveva vent’anni e voleva raggiungere i suoi fratelli, emigrati anni prima in Germania. Si è perso nei boschi, in autunno, per sfuggire ai controlli della polizia slovena e croata lungo i sentieri che attraversano il confine. Secondo quanto ricostruito dalla volontaria Lorena Fornasir, il ragazzo aveva chiesto aiuto tramite un amico cinque giorni prima ed era venuto suo fratello dalla Germania per cercarlo, senza fare in tempo a trovarlo vivo. Per cinque giorni il ragazzo avrebbe aspettato i soccorsi nel bosco, senza ricevere aiuto.

Lo stesso giorno del suo ritrovamento trentacinque persone sono state fermate tra Croazia e Bosnia, e rimandate indietro in quella che si è trasformata nella frontiera orientale dell’Europa, proprio nelle stesse ore in cui in tutti i paesi del vecchio mondo si celebrava il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. “Non si è trattato di una fatalità”, afferma Gianfranco Schiavone del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) di Trieste, membro dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi). “Ma è la manifestazione di una situazione drammatica che riguarda migliaia di profughi lungo la rotta dei Balcani. Quella morte si aggiunge ad altre avvenute negli ultimi anni lungo questa rotta”, continua Schiavone, secondo cui gli arrivi in Italia dalla rotta dei Balcani sono bassi, ma costanti.

“Stiamo parlando di una ventina di persone al giorno che arrivano a Trieste dai Balcani”, continua. Eppure, secondo l’esperto, “c’è molto silenzio su quello che succede lungo la frontiera orientale, perché è come se non si volesse riconoscere che pesanti violazioni dei diritti umani stanno avvenendo in territorio europeo: in Croazia, in Slovenia”. Sono numerosi i report che denunciano le violenze della polizia croata che picchia, deruba e respinge indietro migranti e profughi, violando una serie di norme internazionali. Ma, secondo gli esperti, su questo aspetto è sceso un silenzio preoccupante.

Il muro e i cani
Invece c’è molta enfasi sulle misure di contrasto all’ingresso degli immigrati sul territorio italiano: qualche giorno fa i consiglieri di Fratelli d’Italia nel comune di Trieste hanno proposto di dotare la polizia di frontiera di cani poliziotto per rincorrere i migranti che provano a entrare nel paese. L’estate scorsa aveva fatto discutere la proposta del governatore del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fredriga, di costruire un muro al confine con la Slovenia. Per monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, presidente della Caritas e arcivescovo di Gorizia, “nessuno vorrebbe la costruzione di un muro in Friuli-Venezia Giulia, c’è stata troppa sofferenza legata alla frontiera”. Il ricordo del muro è ancora molto presente: “Appena fuori Gorizia c’è un paesino che ha un cimitero dalla parte slovena: sono passati in mezzo alle tombe per segnare il confine e quando la frontiera era in piedi gli abitanti di quel paese non potevano andare neppure a mettere un fiore su quelle tombe”, racconta Redaelli.

Indumenti, borse, coperte, nella boscaglia sopra Trieste, subito dopo il confine tra Italia e Slovenia, settembre 2019. Attraversata la frontiera, i migranti lasciano gli oggetti che sono serviti per affrontare il viaggio. (Max Hirzel, Haytham)

Per gli esperti l’idea di costruire un muro è irrealistica e contraria alla legge. “La frontiera è lunga trecento chilometri, di cui la maggior parte in montagna”, spiega Schiavone. “Inoltre nessuna barriera fisica può essere innalzata tra due paesi che fanno parte dello spazio Schengen, quello che è possibile è ripristinare in maniera temporanea i controlli di frontiera. Ma il ripristino deve essere giustificato da un motivo preciso”, commenta il presidente di Ics, che aggiunge: “La discussione pubblica rimane dominata dall’ossessione dei respingimenti, ciò porta spesso le persone a nascondersi, a fare percorsi pericolosi e ad affidarsi alle reti criminali, che così alzano il prezzo dei loro servizi”.

L’Asgi – di cui Schiavone fa parte – ha lanciato un progetto di monitoraggio transnazionale delle violazioni dei diritti umani che stanno avvenendo lungo la rotta dei Balcani. Per Schiavone l’ultima misura adottata delle pattuglie miste italo-slovene per intercettare i migranti prima che entrino in Italia è un ulteriore spreco di risorse pubbliche, potrebbe aver violato alcune norme internazionali che impongono di non respingere dei potenziali richiedenti asilo o dei minorenni e produce come unico effetto l’apertura di percorsi ancora più pericolosi, che mettono a serio rischio la vita delle persone, specialmente con l’arrivo dell’inverno.

Anche per il prefetto di Trieste Valerio Valenti le pattuglie italoslovene, sperimentate tra luglio e settembre 2019, sono state poco efficaci. Sono state intercettate quaranta persone in tutto e rimandate in Slovenia. Le riammissioni totali dall’Italia alla Slovenia nel 2019 sono state 118 a fronte di circa cinquemila ingressi. “Le pattuglie miste sono formate da tre agenti: due sloveni e un italiano e operano alla frontiera per sei ore, quattro giorni alla settimana, per intercettare i migranti prima che arrivino sul territorio italiano. In termini di numeri l’esperienza non è stata particolarmente produttiva. Ma la collaborazione tra polizie di stati confinanti è sempre una buona cosa, spero che la collaborazione (ora conclusa, ndr), possa continuare”, afferma il prefetto. Ma il problema a Trieste, come in tutto il paese, sembra essere più legato ai tagli economici al sistema di accoglienza che non all’aumento degli arrivi di migranti.

“Abbiamo avviato un programma di alleggerimento e ridistribuzione delle persone dal Friuli-Venezia Giulia all’intero paese, nell’idea che il flusso di migranti è costante in Friuli e per garantire che i centri non fossero mai sovraffollati. Da luglio a settembre abbiamo spostato 1.160 persone in altri centri italiani e le persone presenti in accoglienza nella regione al momento sono circa 2.600”, spiega Valenti. Inoltre “i bandi per i centri di accoglienza sono andati deserti, perché le organizzazioni che si occupano di accoglienza hanno ritenuto che i tagli previsti siano troppo alti (dai 35 euro a persona ai 27 euro a persona) e non consentirebbero di offrire i servizi di base”, continua il prefetto.

Schiavone di Ics è molto critico: “Il sistema del Friuli-Venezia Giulia è stato destrutturato dal cosiddetto decreto sicurezza, soprattutto a Udine e Gorizia. Nel caso di Trieste è rimasto uguale, perché Ics e Caritas si sono rifiutati di accettare gli standard dei capitolati, anche se c’è un’atmosfera molto precaria. Si voleva trasformare il sistema di accoglienza in una specie di dormitorio, inoltre si rischiava di perdere posti di lavoro. Tuttavia, anche con il nuovo governo, la vicenda non è ancora chiusa. Ci troviamo ancora nella stessa precarietà”. Anche Oliviero Forti della Caritas è dello stesso parere: “I nuovi capitolati d’appalto hanno ribassato gli importi destinati all’accoglienza nei centri di accoglienza straordinaria (Cas), ma non solo. A fronte di un minor costo, sono stati anche previsti minori servizi, trasformando le accoglienze da percorsi di integrazione a meri servizi di albergaggio. Questa situazione ha portato moltissimi enti del terzo settore a scegliere di non partecipare ai bandi sia come scelta dettata dalla non accettazione di un simile modello di accoglienza, sia​ per la non sostenibilità economica di questo sistema”.

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