01 febbraio 2016 12:38

Credo di non aver mai visto tanti monaci come in Birmania. Di sicuro non ho visitato mai tanti monasteri. I monaci indossano abiti di un bellissimo color zafferano (non pensate al giallo del risotto, ma al rosso scuro dei pistilli). Le monache vestono di rosa e, a volte, di giallo: i colori dell’alba.

Bagan, pagoda Shwezigon, gennaio 2016 (Annamaria Testa)

Il buddismo theravada, diffuso in tutto il sudest asiatico e diverso dal buddismo tibetano, si diffonde per la prima volta in Birmania dall’India nel terzo secolo avanti Cristo, con i missionari inviati dall’imperatore Asoka. Una successiva ondata di missionari singalesi arriva a partire dal sesto secolo. Oggi il buddismo è praticato da quasi il 90 per cento dei birmani.

Monastero Shweyanpyay, lago Inle, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

I monaci birmani sono circa mezzo milione, le monache circa 75mila in un paese che conta poco più di 53 milioni di abitanti. Per dire: secondo Vatican Tabloid, in Italia (quasi 60 milioni di abitanti) i religiosi (preti, monaci e monache) sono meno di 135mila.

Una monaca riceve l’elemosina alla porta di un ristorante a Mandalay, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Già nel 1990, come forma di protesta, smettono di accettare le elemosine dei militari: per capire il significato del gesto bisogna sapere che fare elemosina ai monaci è una tradizione buddista e un modo per acquistarsi merito (kutho) contribuendo alla propria felicità futura, e che se un monaco rifiuta l’elemosina di qualcuno è come se lo scomunicasse.

Nel 2007 i monaci danno il via alla rivoluzione zafferano, il più ampio movimento antigovernativo di resistenza non violenta dalle elezioni del 1988. La rivoluzione è brutalmente repressa dalla giunta militare. Se per caso vi siete scordati di questi fatti, investite tre minuti del vostro tempo per guardare le immagini.

Ora il clima politico è considerevolmente cambiato, ma restano delle tensioni: una frangia radicale sta facendo pressioni contro le minoranze musulmane (il 5 per cento della popolazione).

Il monaco responsabile dell’educazione nel monastero Bagaya Kyaung, Inwa, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

I monaci e i monasteri continuano ad avere un ruolo determinante per quanto riguarda l’istruzione: 1.190 scuole monastiche accolgono più di centomila bambini e ragazzi orfani o appartenenti a famiglie bisognose (dato 2005).

Aula scolastica del monastero Bagaya Kyaung, Inwa, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Le comunità monastiche nel paese sono più di 50mila e la loro sussistenza è affidata ai laici. Un monaco non può possedere nulla al di là di tre tonache – che riceve al momento dell’ordinazione – una tazza, un rasoio, un filtro per l’acqua, un ombrello e una ciotola per le elemosine. Vive seguendo 227 diversi precetti.

Tuttavia i monaci più attivi e istruiti parlano un buon inglese, usano il computer e il telefono cellulare, sono convinti di dover adattare ai tempi moderni il loro ruolo di insegnanti e guide spirituali.

Il monastero Mahagandayon si trova a 11 chilometri da Mandalay, nell’antica capitale di Amarapura. È una delle più grandi scuole monastiche del paese, ci abitano più di 1.400 monaci, è aperto al pubblico e negli ultimi anni si è trasformato in un’attrazione turistica.

Monastero Mahagandayon, Amarapura, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Così, succede che a metà mattina, quando tutti i monaci, dopo essersi svegliati all’alba e aver mendicato, si mettono in fila silenziosamente per ricevere il loro pasto quotidiano, debbano procedere tra due ali di turisti chiassosi e assatanati di colore locale e di immagini da catturare.

In effetti i monaci sono (anche) un fantastico soggetto fotografico. Per questo sono sempre più spesso molestati dai turisti. Ho visto turisti cinesi strattonare un monaco perché si mettesse in posa facendo finta di pregare a mani giunte, incongruamente in piedi e voltando le spalle al tempio: ovvio, doveva restare in favore di macchina fotografica.

Refettorio del monastero Mahagandayon, Amarapura, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

I monaci sopportano con ammirevole pazienza: sono convinti che aprire i monasteri e interagire con i turisti promuova la conoscenza del buddismo e possa contribuire al sostegno economico delle istituzioni religiose. Però non guasterebbe se i turisti praticassero un po’ più di rispetto e di buone maniere. A proposito: le foto che vedete qui sono state scattate senza molestare nessuno.

La cucina del monastero Mahagandayon, Amarapura, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Ogni birmano deve fare un periodo di noviziato in monastero una volta compiuti i sette anni e prima dei vent’anni. È un impegno e un orgoglio per ogni famiglia, che si esprime attraverso una complessa cerimonia.

È lo shinbyu: il rito di passaggio che richiama la partenza del principe Siddharta Gautama (il Budda storico) dal suo palazzo e culmina in una sfarzosa processione che si snoda attraverso le strade della città.

Processione per lo shinbyu (rito di passaggio), Mandalay, gennaio 2016. (Annamaria Testa )

I ragazzini sono protetti dal sole da ombrelli dorati, stanno accomodati su carri dorati trainati da buoi, oppure sopra cavalli con bardature coloratissime. Sono truccati e vestiti di seta e oro come principi.

Processione per lo shinbyu (rito di passaggio), Mandalay, gennaio 2016. (Annamaria Testa )

Una volta arrivati al monastero, i ragazzini abbandoneranno gli abiti principeschi, saranno rasati, chiederanno in lingua pali al capo dei monaci di essere accolti come novizi, vestiranno la tunica da monaco ma dovranno seguire solo dieci dei 227 precetti monacali. Il noviziato dei ragazzini (e di alcune, ma non tutte, le ragazzine) dura come minimo una settimana, ma può prolungarsi fino a due-tre mesi.

Birmania, gennaio 2016. (Annamaria Testa)

Dopo i vent’anni, e anche se non ha deciso di prendere i voti, ogni uomo birmano dovrà tornare almeno un’altra volta a servire in monastero come monaco adulto.

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