24 dicembre 2015 09:11

La domanda se avremmo mai potuto tornare di nuovo a casa
era una parte molto reale del bagaglio sentimentale
e largamente letterario con cui lasciavamo la casa di famiglia.
Sul tornare a casa, Joan Didion

In provincia amiamo le notizie sulla fine del mondo.

Ne registriamo ogni giorno di nuove e non ci sfugge l’isteria di cantare messe davanti a bare vuote. Al bar, in piazza, a cena abbiamo celebrato funerali di stato per la scomparsa della democrazia cristiana e della pesca di Bivona, dei borboni dei normanni degli spagnoli, della Chiesa e dei bordelli, dei siciliani, delle campagne e dell’indipendentismo, delle siciliane, della capra dei templi di Agrigento e dei comunisti, qualcuno rimpiange i fascisti, qualcun altro i mafiosi, quasi tutti la Sicilia di una volta.

Sarebbe bello che tutto questo avesse una sua ironia: ma non ce l’ha, siccome ai siciliani piace prendersi sul serio e appendere ai simulacri il proprio destino, e quello dell’intera nazione. L’ultima notizia su cui non abbiamo voglia di scherzare riguarda la fine dell’abituale e ciclico ritorno a casa di chi vive fuori dall’isola.

L’idea del ritorno a casa ci tira da una parte e dall’altra per tutto l’anno, ma si fa più forte e malmostosa con l’arrivo delle feste invernali. Mi rendo conto che non esiste scienza per validare questa frase, ma ho delle storie che possono riempire i buchi.

Ecco una storia. Un figlio ha ripreso a parlare col padre dopo cinque anni di silenzio e lo ha invitato a passare le vacanze di Natale con la sua famiglia a Bonn, in Germania, dove vive e lavora da quindici anni. Il padre gli usa due cortesie: una cravatta per natale e un infarto per capodanno. Il figlio dopo una notte all’ospedale dice al padre: Vado a farmi una doccia, hai bisogno di qualcosa? Il padre dice al figlio: portami a casa. Il figlio prenota un volo per la Sicilia.

Ecco un’altra storia. Un ragazzo e una ragazza iniziano a amarsi alla vigilia di Natale, quando lei entra per la prima volta a casa di lui alle tre del mattino e gli confessa che è ubriaca. Il ragazzo prova a baciarla, la ragazza gli chiede di dormire insieme una mezz’ora, il ragazzo dice va bene e mette una sveglia perché ha un aereo da Fiumicino tra poco. I ragazzi si coricano, forse dormono, di sicuro si baciano: vestiti sotto le coperte, e con le scarpe. Si baciano quando suona la sveglia, per le scale, sul taxi. Sul taxi sorridono per l’imbarazzo. Alla fine lei scende, lui la saluta, il tassista si gira, lo guarda e gli chiede: Ma ‘ndo cazzo vai? Il ragazzo si cerca le parole in bocca: torno in Sicilia.

A differenza di altri simulacri, il ritorno a casa di un siciliano ha una sua sostanza: è storia collettiva e personale

Vivo fuori di casa dei miei da quattordici anni, lontano dall’isola da nove, e non me ne sono mai andato. Me ne accorgo ogni volta che rimetto piede a Santa Elisabetta, il paese in provincia di Agrigento dove sono cresciuto. Bastano poche ore per non avere più niente da dire agli amori e agli amici che vivono in città perché si è risucchiati nei discorsi di parenti che non hanno rispettato altri parenti; di olivi che quest’anno hanno fatto poco olio o molto olio o olio cattivo; di terreni che non valgono più niente, di terreni da proteggere dai vicini, di terreni da vendere; di case costruite trent’anni addietro per figli emigrati che non sanno più che farsene; di persone malate o morte, sopratutto di persone malate o morte, di incidenti tumori operazioni, di badanti e ospizi; e alla parola ospizi ci dobbiamo fermare, misurare il velo di freddo che si posa sul cuore dei più vecchi e assicurare che no, non sarà la loro fine, siccome l’ospizio è il tradimento feroce per un genitore e la vergogna massima per un figlio.

Ma dentro di noi sappiamo che questo tradimento è già compiuto.

A differenza di altri simulacri, il ritorno a casa di un siciliano ha una sua sostanza: è storia collettiva e personale. Negli ultimi due secoli non ci sono state famiglie che non abbiano ricevuto lettere telefonate e disperazioni di un qualche parente andato per fame in Belgio Canada e Sudamerica. Lungo la linea che va dal nonno di mia madre, nato alla fine dell’ottocento, a me, nato nel 1983, non c’è stato figlio che non se ne sia andato di casa. All’inizio del novecento in Argentina, a metà del secolo in Germania, con il nuovo millennio da Roma in su.

Al netto dei motivi che hanno portato i diversi figli a andarsene, motivi che oscillano dalla disperazione alla realizzazione, al di là di ogni singolo motivo c’è una differenza sostanziale ancorché problematica: i figli di ieri tornavano, anzi costruivano la loro vita fuori dalla Sicilia come un ponte verso l’isola; i figli di oggi tornano sempre meno, anzi costruiscono la loro vita come se non dovessero tornare mai più.

A questo punto dovrei parlare di generazioni, ma è una parola di cui mi fido sempre di meno, perciò è meglio parlare di S. che dopo una laurea a Torino è tornata per fare qualcosa-per-la-sua-terra e poi è scappata dopo anni di frustrazioni e giri a vuoto; di A. e P. che fanno figli e case a Brescia senza rimpianti; di E. che torna da Londra e vuole invecchiare a Roma; di M. che è felice di Bruxelles; di F. che è meglio Fidene; di D. che è l’unico che è tornato a Agrigento e ci sta stretto. Tutti questi figli sono stati preceduti da padri che sono andati via: a differenza loro, i figli portano con sé la notizia-fine-del-mondo.

Agrigento, 15 marzo 2015. (Giuseppe Gerbasi, Contrasto)

Perché non tornano, perché torniamo sempre meno, perché pensiamo di non tornare più? Alcuni perché non hanno mai messo in conto di essere legati a un luogo; la maggior parte perché riconosce che nel mondo così com’è, niente sopravvive senza un valore economico. E i posti da cui veniamo hanno un valore pari a zero nel mercato della sopravvivenza. L’ultima classifica del Sole 24 Ore sulla qualità della vita tiene insieme variabili diverse, dalle politiche sociali agli investimenti, e sprofonda Agrigento alla novantasettesima posizione, su centodieci. Ma niente rende l’idea come l’immagine delle case vuote e piene di polvere che si appoggiano le une alle altre e aspettano che qualcuno ritorni a abitarle: e qualcuna nell’attesa crolla.

L’unico valore che riconosciamo ai luoghi dove siamo cresciuti è il valore degli affetti, ma gli affetti imbiancano insieme alle madri, ai padri e alle famiglie.

Il gesto di permettere il ritorno a casa sarebbe un bel gesto, in altri tempi si sarebbe persino parlato di un gesto politico

È un discorso nostalgico, passatista, reazionario quello di chi tra noi vorrebbe tornare ma sa che non troverebbe di che sopravvivere? E quello di chi non sopporta di vedere morire intere comunità? È il solito siciliano orgoglioso quello che dice che i paesi della provincia lombarda o veneta o friulana non sono più belli e ricchi di talenti e risorse di quelli della provincia siciliana? È esagerato chi dice che dal meridione sta iniziando a srotolarsi il futuro del paese?

Due storie ancora. C. ha due lauree e dieci anni di esperienza negli asili dell’Emilia Romagna. Quando ha deciso di tornare è sembrato a tutti che rinunciasse a qualcosa. Quando ha fatto tre figli e iniziato a parlare di aprire uno dei pochissimi asili in provincia è sembrato a tutti che la sua ricerca della semplicità aveva a che fare con la felicità.

R. s’è portato Berlino in provincia e non smette di pensare a un suo posto dove produrre e vendere birra. Ha preso un finanziamento europeo, ha fatto disegnare il posto a un amico architetto che vive a Barcellona e cerca un locale vicino al mare dove appendere il bel nome che ha in testa: Birra&Fichi.

Con l’Europa e il mondo a poche ore di volo sarebbe stupido pensare che per fermare l’emorragia del sud basti restare nel posto in cui si è nati. Andarsene fa parte del gioco dell’oggi, sbattere contro vite complicate o storte o semplici fuori dall’isola fa parte del gioco dell’oggi, scegliere di tornare oppure no fa parte del gioco dell’oggi: a patto che questa scelta sia concessa e sia libera.

Il gesto di permettere il ritorno a casa senza far crepare di fame burocrazia e clientelismo chi sceglie di tornare, in un’epoca in cui l’attenzione è sbilanciata sulle partenze e sulle fughe, sarebbe un bel gesto, in altri tempi si sarebbe persino parlato di un “gesto politico”, in provincia si parlerebbe di gesti per evitare la fine del mondo.

Chiacchiero di tutte queste cose con i vecchi della mia famiglia, dopo aver passato un pomeriggio di fine dicembre a contare le palme del nostro giardino uccise dal punteruolo rosso, un bel coleottero che inizia a devastare la pianta da dentro fino a farla collassare. È stato un anno brutto per le palme, mi dicono i vecchi, speriamo che l’anno nuovo sia migliore di quello appena passato.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it