14 dicembre 2020 16:58

Il rumore dell’elicottero in lontananza spinge tutti a precipitarsi lungo il pendio fangoso che porta a un eliporto di fortuna. Il percorso accidentato non scoraggia gli abitanti di Caseiro Chibut Carchá, nel dipartimento di Alta Verapaz, in Guatemala. Tutti cercano disperatamente di attirare l’attenzione del velivolo.

L’agitazione cresce a mano a mano che l’elicottero si avvicina alla H dipinta in modo approssimativo su un tratto di roccia pianeggiante in cima al pendio. Isolati in una terra circondata dall’acqua, gli abitanti di Caseiro Chibut Carchá ricevono pochissimi rifornimenti e da settimane sono senza corrente elettrica né hanno acqua potabile. L’elicottero supera la piattaforma e atterra sul fianco di un’altra montagna, inaccessibile a causa delle alluvioni che hanno colpito la regione.

Mentre riscendono il pendio, gli indigeni non nascondono la loro delusione. Un bambino smonta la bandiera costruita con un ramo e un pezzo di stoffa rossa per segnalare che la comunità ha bisogno d’aiuto. “Rubano il nostro cibo, gli elicotteri atterrano sempre dall’altra parte, mai da noi”, dice un ragazzo.

Secondo la Coordinadora nacional para la reducción de desastres (Conred), oggi circa 234 comunità sono nelle stesse condizioni di Caseiro Chibut Carchá, isolate a causa delle piogge torrenziali provocate dal passaggio a novembre degli uragani Eta e Iota. I dati della Conred indicano che le alluvioni hanno colpito 2,4 milioni di persone e più di 270mila guatemaltechi vivono in alloggi temporanei. David De León, portavoce della Conred, ammette che le autorità non possono fare una stima precisa dei danni. Secondo alcuni esperti coinvolti nelle operazioni di soccorso, nelle aree più isolate 50mila persone non stanno ricevendo aiuti.

Dalla montagna dove si trova la piattaforma di atterraggio per l’elicottero si ammira un panorama straordinario: il sole splende su quella che può sembrare una laguna con piccole isole tranquille. Guardando meglio, centinaia di metri più in basso, si scorgono i tetti delle case. Alcuni emergono sopra la superficie dell’acqua, ma la maggior parte è sommersa.

Esteban Choc Giut, il capo del villaggio, indica alcuni tetti in lontananza. “Quello laggiù è mio, quell’altro è della scuola. Abbiamo perso tutto, anche i cinquecento libri che avevamo”. Sul fianco degli edifici travolti dall’acqua sventolano bandiere dai colori vivaci. In questo momento la comunità di Caseiro Chibut Carchá può solo aspettare gli aiuti.

“Abbiamo bisogno urgente di cerate per ripararci dalla pioggia. Ci servono al più presto viveri, vestiti, materassi e acqua”, spiega Choc Giut. Poi aggiunge: “Siamo agricoltori, ma i nostri campi non esistono più”.

Raggiungere Caseiro Chibut Carchá senza una barca è impossibile. Celina Flores Amay, primaria di pediatria dell’ospedale di Cobán, è partita da Cobán, capoluogo del dipartimento di Alta Verapaz, con l’infermiera Reghy Lcal Cuc. In linea d’aria Cobán dista solo 14 chilometri, ma già prima degli uragani per arrivare a Caseiro Chibut Carchá bisognava percorrere 90 chilometri di strade di montagna.

Amay e l’infermiera hanno usato le poche strade percorribili e poi hanno attraversato le aree alluvionate a bordo di barche e zattere, o guadandole a piedi. Storicamente questa zona del Guatemala è sempre stata abbastanza secca, quindi non ci sono molte barche a motore. Ma le comunità hanno costruito zattere di fortuna con casse di legno e container vuoti. Per ogni traversata si pagano tra i dieci e i quindici quetzal (1-1,5 euro).

Un mese fa c’era un piccolo fiume che scorreva nel villaggio. Ora emergono solo il campanile della chiesa e qualche tetto

Amay e Lcal Cuc hanno raggiunto i 346 abitanti di Caseiro Chibut Carchá su un piccolo gommone con un motore fuoribordo. Avvicinandosi al villaggio, il capitano ha spento il motore e ha chiesto ai suoi uomini di usare un remo per verificare la presenza di oggetti sotto l’acqua.

Un mese fa c’era un piccolo fiume che scorreva nel villaggio rifornendo d’acqua gli abitanti. Ora emergono solo il campanile della chiesa e qualche tetto. Decine di case sono completamente sommerse. Sul pelo dell’acqua si notano la parte superiore di una staccionata e un cancello davanti a una casa inondata fino alla grondaia.

Una donna è immersa nell’acqua fino alla vita accanto a un tavolo che sbuca per metà. Sta lavando i panni, mentre un bambino è seduto sul tavolo. Un ragazzo si avvicina nuotando, nudo dalla vita in giù.

I bambini non hanno acqua pulita per lavarsi, giocano nell’acqua stagnante e vivono in spazi affollati. Di conseguenza è normale che comincino a diffondersi le malattie: “Troviamo bambini con la tosse, dolore allo stomaco, diarrea, febbre, vomito e problemi dermatologici”, conferma Amay.

Una svolta sbarcate, Amay e Lcal Cuc hanno raggiunto una delle poche case agibili e hanno allestito una clinica improvvisata.

Qualche ora dopo, mentre il sole comincia a tramontare, Amay e Lcal Cuc hanno raggiunto il vicino centro abitato di Sesajal grazie a un passaggio offerto da un tenente dell’esercito e dalla sua squadra, che trasportano gli abitanti della zona con una piccola barca.

Google Maps mostra com’era Sesajal prima delle alluvioni: un villaggio diviso in circa 25 isolati da una maglia di strade sterrate, con due chiese, un campo da calcio e una piccola clinica. Ora la maggior parte delle case è sott’acqua, e centinaia di persone vivono in rifugi di fortuna.

Anche qui c’è uno spiazzo attrezzato per far atterrare gli elicotteri. Si trova a circa cinque minuti a piedi dalla piazza principale, alla fine di un sentiero che passa accanto a una chiesa trasformata in rifugio. Dopo qualche minuto la strada si apre su alcune case di legno e su una struttura isolata di cemento. Un piccolo negozio, al buio a causa dell’interruzione di corrente, ha gli scaffali vuoti, a eccezione di alcune bottiglie di Coca-Cola in un congelatore spento.

Un lavoro difficile
A Sesajal c’è anche una piccola clinica gestita dall’infermiera Dulce Roseo Gonzales, 26 anni. Gonzales viveva con i genitori vicino a Cobán, ma è rimasta a Sesajal per poter raggiungere le comunità isolate. Si occupa della salute di 3.338 persone. Il suo lavoro è già difficile in conduzioni normali, ma ora è quasi impossibile. Assiste ogni genere di paziente, dai malati cronici a chi ha bisogno di interventi d’emergenza: “Il momento più difficile è stato quando una donna ha avuto un aborto spontaneo. Non potevamo trasferirla, era incinta di sei mesi. Non sapevo cosa fare”, dice.

Sotto le cerate sono state allestite delle cucine temporanee, dove le famiglie condividono gli utensili rimasti nella comunità. Manca la corrente e si mangia solo quello che arriva con gli elicotteri.

Dopo cena Gonzales, Amay e Lcal Cuc cercano un posto per dormire. Flores si stende sul pavimento di cemento della clinica, mentre Gonzales prende una torcia e visita le stanze assegnate alle famiglie rimaste senza niente. Alcune sono alloggiate nei magazzini delle chiese. Pochi hanno il lusso di un letto condiviso, gli altri si accontentano del cemento. Una madre è seduta accanto al figlio appena nato. Sono illuminati da una candela. Il bambino non ha ancora un nome.

Il giorno dopo le nuvole basse minacciano nuove scariche di pioggia. Di buon mattino il sindaco del villaggio, Santiago Quib Chub, dà istruzioni alle persone che lo stanno aiutando a portare via i mobili dalla sua casa. “Prima dell’alluvione qui c’erano 18 case”, racconta.

Quib Chub aveva costruito due case, una per la madre e l’altra per la sua famiglia. Quella della madre è stata completamente sommersa. L’altra è una struttura piuttosto sofisticata per gli standard locali, in cemento e su due piani. Il livello dell’acqua si è alzato di un metro nella notte. È chiaro che anche questa casa si allagherà: “Sono triste, ma mi sento forte”, dice il sindaco guardando con fierezza il suo villaggio sommerso.

Soluzione a lungo termine
Il tenente colonnello Peter Thayer, coordinatore del personale civile per la Joint task force-Bravo, la squadra inviata dagli Stati Uniti per assistere i guatemaltechi nelle operazioni umanitarie, elogia le capacità organizzative degli indigeni e i forti vincoli tra le comunità. Thayer sa che molte persone stanno sopravvivendo con risorse minime, ma spesso deve richiamare gli elicotteri inviati per errore due volte nello stesso villaggio.

Secondo Wener Ochoa, ingegnere agronomo e professore dell’università San Carlos del Guatemala, saranno necessari da tre a cinque mesi prima che la terra assorba l’acqua, addirittura sei mesi in alcune aree dell’Alta Verapaz. “A quel punto saremo quasi arrivati alla prossima stagione delle piogge”, spiega. Inoltre Ochoa teme che la perdita dei terreni agricoli porti “a un’ulteriore deforestazione per creare terreni coltivabili (specialmente con semine basilari come il granoturco e il fagiolo) con cui sostituire quelli distrutti dalle inondazioni”.

I leader delle comunità di Sesajal e Caseiro Chibut Carchá hanno chiesto che gli abitanti dei villaggi siano trasferiti altrove. “Abbiamo bisogno dell’aiuto del governo o di qualche ong. Ci serve un posto dove andare e coltivare la terra”, spiega Choc Giut.

Tuttavia le tensioni storiche tra le autorità guatemalteche e le comunità native non favoriscono un clima di fiducia. “Molte persone preferirebbero morire dove si trovano ora invece di spostarsi senza la garanzia che avranno una nuova terra”, spiega un dipendente di un’organizzazione umanitaria che lavora a stretto contatto con le popolazioni native.

Il portavoce della Conred, David De León, conosce questi problemi: “Dobbiamo fare delle indagini dettagliate prima di attuare un piano per il trasferimento delle persone. Proveremo a spostare queste comunità solo dopo aver considerato i fattori culturali e linguistici”.

Secondo lui, ci vorrà almeno un anno prima di avviare qualsiasi programma di trasferimento. Nel frattempo non è chiaro chi si occuperà di sfamare queste persone. Le donazioni private si stanno esaurendo e serve una soluzione a lungo termine.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Al Jazeera.

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