16 luglio 2018 10:09

Da due anni in un’aula al primo piano del tribunale di Palermo si celebra il processo italiano più seguito all’estero. Sul banco degli imputati, dietro al gabbiotto di vetro blindato e sorvegliato dagli agenti, non ci sono politici né mafiosi. Non ci sono uomini dei servizi e nemmeno pentiti, ma un giovane eritreo con lo sguardo spento, che ruota nervosamente un crocifisso di legno appeso al collo, bisbigliando a labbra strette quella che sembra una preghiera. Durante ogni udienza osserva impaurito i procuratori prendere posto nell’aula semideserta, popolata solo da qualche giornalista. Si chiama Medhanie Tesfamariam Berhe e prima che degli agenti sudanesi lo estradassero in Italia, faceva il pastore in una fattoria, in attesa di un’occasione per emigrare in Europa. Il 24 maggio 2016, cinque paesi europei, guidati dalle indagini dei procuratori di Palermo, hanno partecipato alla sua cattura a Khartoum, in Sudan. L’arresto è stato presentato ai mezzi d’informazione di tutto il mondo come il risultato più eccellente della lotta ingaggiata dall’Europa al traffico di esseri umani.

Secondo i magistrati, dietro lo sguardo spaventato del ragazzo si nasconde uno dei più sanguinari colonnelli della tratta: Medhanie Yehdego Mered, soprannominato il Generale. Eppure, l’interminabile sfilza di prove prodotte dalla difesa raccontano un’altra storia: Medhanie Yehdego Mered sarebbe ancora a piede libero e quel ragazzo con i capelli arruffati, scaraventato dall’Africa in una cella del carcere Pagliarelli, sarebbe vittima di un clamoroso scambio di persona.

Pressoché ignorato dai giornali italiani, del “caso Mered” si sono invece occupati i giornali e le tv di tutto il mondo: dal Guardian, il primo a sollevare il caso, al New Yorker, che ha dedicato alla vicenda dieci pagine a firma del giornalista Ben Taub; da Le Monde, che ha parlato di “farsa giudiziaria”, al Wall Street Journal; e poi Al Jazeera, Globe and Mail, Radio France International, New York Times, l’emittente britannica Bbc e quella svedese Svt. Tutti hanno espresso dubbi e critiche, in alcuni casi anche molto dure, ma il 21 maggio, giorno in cui il legale di Berhe ha depositato un secondo test del dna per scagionarlo, i pubblici ministeri hanno presentato alla corte nuove accuse per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, trasformando il processo in una storia a metà tra Pirandello e Kafka.

Un passo indietro
Ma andiamo con ordine. Per capire le ragioni che spingono i magistrati a ritenere che la persona arrestata sia uno dei più importanti criminali di oggi, bisogna tornare indietro di cinque anni, alla notte del 3 ottobre 2013, in cui 366 persone – quasi tutte di origine eritrea, in fuga dalla dittatura di Isaias Afewerki – muoiono in un naufragio a un chilometro e mezzo da Lampedusa.

In quei giorni, i giornali di tutto il mondo puntano il dito contro la lentezza dei soccorsi, l’assenza di una strategia comune in Europa, la mancanza di una reale cooperazione sulle politiche dell’accoglienza. L’attenzione si concentra soprattutto sui trafficanti di esseri umani, criminali che gestiscono i viaggi e accumulano ricchezze sulla pelle dei migranti. I circa 150 superstiti del naufragio di ottobre sono pronti a fare nomi e cognomi degli uomini che hanno pagato per raggiungere l’Europa. E di quelli che li hanno seviziati e torturati durante il tragitto.

La procura di Palermo apre un’inchiesta e la chiama con il nome del dio greco dei mari, figlio di Poseidone e protettore dei naufraghi: Glauco. All’indagine partecipano le autorità svedesi, olandesi e la National crime agency britannica. L’idea dei magistrati siciliani è che per battere i trafficanti si possano usare gli strumenti della lotta alla mafia, cioè le intercettazioni, e l’intuizione che anche fra i trafficanti esista un’organizzazione verticistica con un suo codice d’onore.

In pochi mesi, e proprio grazie alle intercettazioni, il procuratore Calogero Ferrara, che ha guidato le indagini per conto della procura di Palermo, stila un elenco con i nomi di 24 criminali coinvolti nella tratta. Il ricercato numero uno, il capo dei capi dell’organizzazione, lo stesso che nelle intercettazioni sembra abbia riso dei migranti morti il 3 ottobre, è un eritreo di 34 anni, che tutti chiamano il Generale. Si chiama Medhanie Yehdego Mered e di lui i magistrati hanno anche una foto, che danno ai mezzi di informazione: ritrae un uomo con una maglietta blu, i capelli lunghi, un pizzetto e una collana con un crocifisso d’oro.

Ai primi di giugno del 2016, Ferrara, davanti alle telecamere della Bbc, in un’affollata conferenza stampa, annuncia l’arresto. Mered è il primo trafficante di esseri umani finito in manette in Africa. “È il capo di una delle più organizzate reti criminali dedite al traffico di esseri umani’’, dice il procuratore. “L’arresto e l’estradizione in Italia di Mered Yehdego Medhanie è un risultato straordinario”, dichiara l’allora ministro dell’interno Angelino Alfano.

L’operazione è salutata come un successo dalle autorità e come la dimostrazione che la collaborazione tra i paesi europei nella lotta ai trafficanti inizia a dare i suoi frutti, ma qualcosa comincia ad andare storto.

La foto
Poche ore dopo l’estradizione, centinaia di eritrei in Europa e in Eritrea sollevano dubbi sulla persona arrestata. Tra loro c’è una donna, si chiama Seghen Tesfamariam Berhe, ha trent’anni e vive a Khartoum. Ai giornalisti del Guardian e del New York Times dice che quell’uomo che in tv ha visto scendere le scale di un aereo a Fiumicino, scortato da due agenti, lo stesso ragazzo che secondo la procura è il Generale, è invece suo fratello, e si chiama Berhe, non Mered.

‘’Dovete aiutarci”, dice la donna, “mio fratello non è Mered. Non è un trafficante. È un bravo ragazzo, non aveva nemmeno i soldi per attraversare il deserto. Dovete ascoltarmi’’.

Seghen non ha notizie di Medhanie da due settimane. Ai giornalisti che seguono il caso in quelle prime ore invia una foto del fratello. L’immagine ritrae un giovane ben vestito, che indossa una giacca grigia dal cui taschino esce una specie di pon-pon rosso. È lui che è stato estradato in Italia, ma rispetto alla foto rilasciata dalla procura dopo l’arresto, sembra un altro.

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“Mio fratello viveva ad Asmara, in Eritrea”, aggiunge Seghen Tesfamariam Berhe, “è arrivato a Khartoum nel 2015 dall’Etiopia. Non può essere lui Mered’’. L’anno è un dettaglio importante, perché le intercettazioni dei procuratori dicono invece che Mered nel 2014 si muoveva già tra la Libia e il Sudan.

Dubbi sulla persona arrestata li solleva anche un altro eritreo. Si chiama Seifu Haile e secondo la procura di Roma, che da anni dà la caccia a Mered, è il tesoriere del trafficante in Libia. Interrogato quattro volte, Haile ha confermato ogni volta che la foto diffusa dai giudici di Palermo è di Mered, ma che la persona in carcere non è il Generale. Dopo questa testimonianza, il procuratore ha dichiarato: “Non confermiamo più quella foto, non sappiamo se quello sia veramente il volto del trafficante”.

A negare che in carcere ci sia il Generale sono anche alcune persone che hanno pagato il vero Mered per attraversare il Mediterraneo. Uno di loro si chiama Robel Kelete e racconta che nel 2013 Mered aveva venduto lui e i suoi compagni a una tribù di beduini del Sinai. In cambio, i traffici del Generale avrebbero potuto continuare ad attraversare indisturbati il deserto. Kelete è stato tenuto prigioniero dieci mesi dai beduini, durante i quali è stato torturato per ottenere un riscatto che non è mai stato pagato. Lo hanno lasciato esanime nel deserto, credendolo morto. Kelete ha ricominciato il viaggio dall’inizio. Ha pagato un altro trafficante, ha attraversato di nuovo l’Etiopia e il Sudan, e ha raggiunto infine l’Europa.

Il giorno in cui le tv annunciano l’arresto di Mered, Kelete mette insieme i pochi risparmi che ha e compra un volo da Stoccolma a Palermo per dire ai procuratori che il ragazzo estradato non è il Generale. Quando il giudice gli mostra la foto di Mered diffusa dai magistrati, Kelete si mette a piangere: ‘’Sì, è lui Mered, è lui l’uomo che ho pagato. È lui l’uomo che mi ha venduto ai beduini’’.

Tuttavia, l’accusa ritiene che Kelete sia venuto in Sicilia con l’unico obiettivo di scagionare il trafficante e apre un’indagine su di lui.

Facebook
Gli investigatori avevano trovato la foto di Mered sul profilo Facebook del trafficante. In assenza di passaporti e dati certi sui presunti criminali, le autorità europee si sono affidate al social network, usandolo come un gigantesco ufficio anagrafe: le foto profilo e i dati condivisi sono carte d’identità, e i selfie finiscono nei documenti dell’inchiesta. Tra i profili tenuti d’occhio c’è anche quello di Medhanie Tesfamariam Berhe.

Nel 2015, Berhe stringe amicizia su Facebook con una donna. Si chiama Lidya Tesfu, è anche lei eritrea e vive in Svezia. Berhe non lo sa, ma Tesfu è la moglie del trafficante Medhanie Yehdego Mered. Sulle carte dell’inchiesta Glauco, i procuratori le dedicano un intero capitolo. Per provare la sua innocenza, Berhe fornisce ai magistrati le password per accedere al suo account Facebook. I pubblici ministeri puntano l’indice su una chat tra l’uomo arrestato e la donna. In chat il ragazzo muove delle avances a Tesfu. “Ci siamo visti ad Asmara”, scrive lui, “è possibile?”. “Impossibile!”, risponde lei, “non vado ad Asmara da anni e non mi ricordo di te”. Poi lo liquida: “Sono sposata e mio marito è un uomo molto geloso”.

Gli avvocati si consultano durante il processo a Medhanie Tesfamariam Berhe, Palermo, il 22 gennaio 2018. (Francesco Bellina, Cesura)

Berhe rincara la dose: “Se lo desideri potresti avere più di un compagno”. “No”, replica Lidya Tesfu, “io voglio solo mio marito’’. Gli investigatori hanno depositato alla corte solo quest’ultima frase, considerandola come una prova che la donna sia la moglie dell’uomo arrestato. Le parole “voglio solo mio marito” sono interpretate come uno slancio d’amore verso il partner che da quando ha lasciato la Libia non ha più visto. Il resto della chat non è mai stata prodotta né tradotta dai procuratori.

“Dovrebbero saperlo ormai che l’uomo in carcere non è mio marito”, afferma Tesfu. I magistrati palermitani non la interrogano. “Avevo detto a Mered di smetterla con questo lavoro”, dichiara, “gli avevo detto che prima o poi sarebbe successo un casino. E così è stato. Io non posso farci nulla se un innocente sta pagando al suo posto. Non è colpa mia. Dovreste chiederlo ai procuratori. Lasciateci in pace. Io e il mio bambino abbiamo bisogno di essere lasciati in pace”.

Il test del dna
Il bambino di cui parla Tesfu sarebbe il primogenito di Medhanie Yehdego Mered, registrato all’anagrafe svedese come Raei Yehdego. Non ha mai conosciuto il padre perché la madre è fuggita dalla Libia per raggiungere l’Europa nel 2014, quando ha saputo di essere incinta.

Ad aprile del 2018 l’avvocato di Berhe, Michele Calantropo, è volato da Palermo a Eskilstuna, in Svezia, con un genetista autorizzato dalla corte palermitana. Lo specialista ha prelevato un campione di saliva del bambino per confrontarlo con il dna del ragazzo detenuto a Palermo. Il risultato non lascia spazio a dubbi: il piccolo Raei non è il figlio dell’uomo arrestato a Khartoum.

Il silenzio che riempie l’aula del tribunale di Palermo è il silenzio che è calato su Berhe e la sua vicenda

Non è la prima volta che la genetica viene chiamata in causa in questo processo. Nell’ottobre 2017, l’anziana madre di Berhe, Maeza Zerai, era volata da Asmara, in Eritrea, a Palermo con un visto speciale per sottoporsi al test di maternità. Prima di lasciare la capitale eritrea, Medhanie abitava con la madre nel quartiere di Ghezzabanda.

“Medhanie se n’è andato di punto in bianco”, racconta Zerai, “un giorno mi sono alzata e non l’ho trovato in casa. L’ho rivisto in tv, e per poco non mi è venuto un colpo. Ma lui non è un trafficante. Non ha fatto niente, non è lui Medhanie Yehdego Mered. Il nome di mio figlio è Medhanie Tesfamariam Berhe’’. Anche in questo caso, il risultato del test dà ragione alla difesa: Maeza, che ha portato con sé una lunga serie di certificati anagrafici, è la madre biologica dell’uomo arrestato. In aula guarda il ragazzo in manette e scoppia in un pianto inconsolabile.

La procura si oppone però alla deposizione del test del dna da parte dell’avvocato del ragazzo: “La nostra indagine non si basa su dati genetici ma su dati di altra natura, come ad esempio la voce”, dicono i procuratori di Palermo.

La voce
Due settimane prima dell’arresto di Berhe, a maggio del 2016, la polizia italiana aveva intercettato tre conversazioni tra lui e il cugino, Gherry Ahiolo. Ahiolo aveva appena attraversato il deserto e, una volta arrivato dal Sudan a Tripoli, in Libia, gli uomini del trafficante Abouldurazak gli avevano chiesto di contattare un familiare che potesse garantire il pagamento della prima parte del viaggio. Solo dopo avrebbe potuto imbarcarsi per la Sicilia.

Ahiolo gli aveva fornito il numero di telefono di Berhe, che aveva rassicurato i trafficanti, dicendogli che il conto per il viaggio del cugino era stato già saldato.

I trasferimenti di denaro avvengono quasi sempre con la mediazione di parenti e conoscenti dei migranti, una volta che questi sono arrivati in Libia. La prassi è descritta anche nelle carte dell’inchiesta Glauco. Ma per gli inquirenti, le telefonate tra Berhe e i criminali sono un’ulteriore prova contro di lui.

Migranti arrivati nel porto di Palermo a bordo della nave Diciotti della guardia costiera italiana, il 19 giugno 2017. (Francesco Bellina, Cesura)

A novembre del 2017, la difesa ha cercato di dimostrare che la voce di Berhe è diversa da quella di Mered, intercettato dalle autorità italiane nel 2014. L’avvocato Calantropo si è rivolto al centro di ricerca interdisciplinare sul linguaggio dell’università del Salento, che ha stabilito una discordanza tra la voce attribuita al Generale e quella del ragazzo in carcere a Palermo: “Con un margine d’errore dell’1 per cento, il risultato suggerisce che il ragazzo in prigione non è il trafficante Mered”, ha detto il professore Milko Grimaldi.

Anche la procura ha fatto condurre una perizia sulla voce di Berhe, ma si è rivelata inconcludente perché per confrontare le due voci è stato usato un software (Nuance) che non ha nel suo database la lingua tigrigna, parlata in Eritrea.

Dov’è il Generale
Ma se il ragazzo che ha trascorso due anni in una cella di Palermo non è Medhanie Yehdego Mered, come sostiene la difesa, dove si trova il trafficante?

“Fino all’estate del 2016 era a Dubai”, afferma Samuel Sasso, sergente del nucleo speciale di intervento della capitaneria di porto di Roma, che ha condotto le indagini su Mered per conto della procura della capitale. Sasso nel novembre 2017 è stato chiamato a testimoniare dalla difesa del detenuto e ha citato una fonte della polizia olandese. “Senza contare”, aggiunge Sasso, “che i profili Facebook riconducibili a Mered sono stati aggiornati mentre l’uomo oggi detenuto si trovava già in carcere in Italia’’.

Nel luglio 2017, il giornalista Ben Taub ha raccontato sul New Yorker come mai Mered si trovava a Dubai: “Mered mi ha detto che nel dicembre 2015 è stato arrestato con un nome diverso per aver usato un passaporto eritreo falso”, scrive il giornalista, “non ha specificato in quale paese si trovava, ma l’intercettazione di una chiamata fatta dal fratello, in cui si parla del ritorno in ritardo di Mered da Dubai, suggerisce che il trafficante era stato probabilmente arrestato negli Emirati Arabi Uniti. Sei mesi più tardi, quando Berhe sarà arrestato a Khartoum, Mered lo apprenderà in prigione”.

In quel periodo, tra novembre e dicembre del 2015, il Generale sembrava svanito nel nulla, come testimonia l’assenza di post sul suo Facebook. È in questo intervallo di tempo che entra in gioco, suo malgrado, Berhe. A ottobre – ricordate? – aveva stretto amicizia con la moglie di Mered sul social network. I procuratori ritengono che non possa trattarsi di una coincidenza: Berhe ha lo stesso nome di battesimo di Mered, Medhanie; è anche lui eritreo; vive a Khartoum (dove però ci sono altri 300mila eritrei) e tra i suoi contatti Facebook c’è addirittura la moglie del trafficante. Le intercettazioni sul numero di telefono collegato al profilo Facebook di Berhe porteranno al suo arresto nel maggio 2016.

Due mesi dopo, la bacheca di Mered dà un segno di vita: nel luglio 2016 compare la fotografia di un cocktail sul tavolo di un bar a Dubai. Secondo il New Yorker, quel giorno Mered sarebbe riuscito a uscire di galera grazie all’aiuto di un suo collaboratore, che avrebbe fornito alle autorità locali un nuovo documento dove c’è scritto che Mered è un cittadino ugandese.

Il collegamento tra Mered e l’Uganda è stato fatto anche in un documentario della tv svedese Svt, girato in collaborazione con il Guardian. Mandato in onda lo scorso aprile, racconta che il Generale si troverebbe proprio nella capitale ugandese, Kampala. Svt e il Guardian hanno raccolto decine di testimonianze di rifugiati eritrei che dicono di averlo visto nei nightclub della città. Un’ulteriore indagine dei giornali locali racconta che Mered sarebbe in possesso di un passaporto falso, registrato a nome di Amanuel Habte.

Il rischio fallimento
Il dubbio che possa esserci stato uno scambio di persona circola anche nei corridoi della procura di Palermo. In un fascicolo del novembre 2017 contenente gli atti di un’indagine integrativa sull’imputato, il procuratore Ferrara si riferisce per la prima volta all’uomo estradato con il nome di Medhanie Tesfamariam Berhe, “alias” Medhanie Yehdego Mered.

Nelle accuse elencate nel dossier, l’imputato non è più presentato come un pericoloso trafficante di esseri umani in Africa, ma come una specie di intermediario tra i migranti e i criminali. A sostegno di questa tesi, i procuratori hanno depositato alcuni messaggi contenuti sul cellulare di Berhe. Il ragazzo parla dei viaggi per la Libia che i suoi amici eritrei si preparano ad affrontare, e queste conversazioni sono interpretate come una prova delle sue attività illegali. Tuttavia, chi scappa dalla dittatura in Eritrea, organizza spesso la fuga con amici e conoscenti, in modo da poter contare su una rete di protezione e ricevere consigli durante il viaggio. Ma se questo vale per ogni eritreo che lascia il suo paese, sembra non valere per Medhanie Tesfamariam Berhe.

Lo scorso due luglio il ragazzo ha parlato per la prima volta in aula:

Mi hanno arrestato e torturato per giorni. In Eritrea lavoravo come falegname e idraulico, poi ho fatto il servizio militare, che però praticamente non finisce mai, per questo sono scappato a dicembre 2014. Sono stato per due mesi in Etiopia e poi mi sono diretto in Sudan. Sono arrivato a Khartoum il 23 marzo 2015 e da lì non mi sono più mosso fino al mio arresto. Io non sono Mered, non sono un trafficante e non ho mai collaborato con uno di loro. Il telefono l’ho comprato in Sudan in un negozio che vende telefoni di seconda mano. Le applicazioni c’erano già tutte, da Viber a Facebook. Se qualcuno me lo chiedeva per chiamare, glielo davo. A volte si trattava di qualche ora, altre di un giorno intero.

Seguo questo caso da due anni e ho l’impressione che non sia un semplice processo giudiziario. All’inizio è stato raccontato da politici e magistrati come un primo passo per affrontare con decisione la crisi dei migranti e frenare il flusso di persone che lasciano i loro paesi per raggiungere l’Europa. Annunciato ai mezzi d’informazione di tutto il mondo come un successo, con il passare del tempo la narrazione è cambiata, gli entusiasmi si sono spenti e il caso è sparito dai giornali nazionali, salvo qualche rara eccezione.

Il silenzio che di volta in volta riempie l’aula del tribunale di Palermo alla fine di ogni udienza, è il silenzio che è calato su Berhe e la sua vicenda. È un silenzio che sembra nascondere il rischio di un errore più grande: aver inquadrato il fenomeno migratorio come un problema di sicurezza a cui dare una risposta giudiziaria. Aver trattato il business del traffico di esseri umani come una causa della crisi dei migranti, e non come una sua conseguenza, rischia di trasformarsi in un fallimento.

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