Nell’estate del 2023 uno sconosciuto mi ha scritto mandandomi un estratto di un mio libro e un messaggio di complimenti. È una cosa che ogni tanto capita a chi scrive, e sul momento mi ha fatto piacere. Il piacere però è durato pochissimo, perché dopo un istante mi sono reso conto che si trattava di un brano inedito. Lo avevo scritto poche settimane prima, nell’ultimo capitolo di un libro che sarebbe uscito vari mesi dopo. E così anche io mi sono ritrovato coinvolto in uno dei più assurdi misteri dell’editoria internazionale. Un mistero, in parte ancora irrisolto, dal fascino sconfinato e dai risvolti pratici sostanzialmente inesistenti – il che potrebbe essere una buona sineddoche per la letteratura in generale.
Era la storia del “ladro di libri”, che per anni ha truffato centinaia di editori e agenti letterari per mettere le mani su migliaia di manoscritti inediti senza nessuna ragione apparente – e che, poco prima di contattare me, era stato rocambolescamente arrestato dall’Fbi e condannato da un tribunale statunitense.
Per capire il furto subìto da me – che non sarebbe stato l’ultimo – occorre capire i primi, e per comprendere i primi bisogna necessariamente conoscere qualcosa del mondo in cui si sono svolti, un po’ come quando un detective studia la scena di un crimine. Quel mondo è l’editoria letteraria internazionale.
Quando non è ancora un volume ma non è più solo un’idea, un libro è un file di testo che circola lungo la filiera di produzione e commercializzazione del settore, che con caratteristico passatismo lo chiama “manoscritto”. Spesso autori e autrici sono rappresentati da agenti, a cui mandano i propri lavori perché li diffondano tra gli editori che potrebbero essere interessati a pubblicarli. Quando sono in molti, i diritti sono venduti in aste che possono raggiungere cifre milionarie. In parallelo a questo processo operano gli scout, professionisti pagati dalle case editrici per seguire il mercato internazionale e segnalare i titoli promettenti, trovare scritti in lingue che non conoscono o arrivare su un libro di grande potenziale prima che generi un’asta.
Tutto ciò sembra molto codificato, e in parte lo è; ma – specie prima che si diffondesse la consapevolezza della frequenza dei furti – si concretizza in larga misura in una rete fatta di scambi fiduciari e contatti personali. Tranne che per rarissimi casi (i traduttori di Dan Brown lavoravano da computer senza collegamento a internet, sotto sorveglianza armata), i manoscritti sono gestiti senza particolari precauzioni, scambiati come allegati privi di password in email personali o messaggi su Whatsapp. Pubblicarli senza autorizzazione è un crimine impossibile da portare a termine restando impuniti; e la diffusione in rete di un inedito non fa che danneggiare un settore intero – ossia quello da cui trae la propria sussistenza chiunque abbia accesso al testo – senza portare guadagno a nessuno. Insomma: per molto tempo (e in parte tuttora) la difesa principale contro i furti di manoscritti è stata la domanda: perché qualcuno dovrebbe mai farlo?
Però qualcuno lo ha fatto. È cominciato tutto nella seconda metà del 2016, ma per molto tempo non è stato neppure chiaro che fosse successo qualcosa. Un agente riceveva un’email in cui un editor chiedeva un dato manoscritto, ma poi si incontravano di persona e quest’ultimo non ricordava di averglielo chiesto. Oppure il nuovo assistente di un agente lo richiedeva a una scout che lo spediva, e poi si ricordava di averlo già fatto. Ma si tratta di sviste, piccole frizioni del tutto cornprensibili in una rete di scambi informali. In realtà non lo erano: se chi riceveva quelle email le avesse studiate con attenzione, avrebbe notato che nei nomi dei mittenti c’erano strani errori – “g” al posto di “q”, suffissi “.com” al posto di “.it”, o “rn” al posto di “m”. Discrepanze che non nota quasi nessuno, se non è all’erta: ne ho messa una anche io, poche righe fa. E infatti nessuno le ha notate, anche perché nel caso di un furto digitale, la vittima è ancora in possesso di ciò che le è stato rubato.
Nel 2017 qualcuno ha provato – con sistemi simili – a mettere le mani sul manoscritto di un volume della serie Millennium, di Stieg Larsson. Viste le cifre in gioco – la trilogia ha venduto più di cento milioni di copie – il testo era protetto da una password, che l’editor ha preferito dare telefonicamente alla collega che l’aveva chiesta per email, scoprendo così che non l’aveva mai chiesta. A questo punto la voce ha cominciato a circolare e l’attenzione ad alzarsi, e agenti, editor e scout di tutto il mondo si sono resi conto che tante piccole sviste e frizioni subite nell’anno passato erano in realtà tentativi di furto: e che erano andati a buon fine.
La vicenda aveva vari aspetti inspiegabili. Innanzitutto, perché? Se nel caso di Larsson – uno dei più grandi successi editoriali del ventunesimo secolo – si poteva immaginare un interesse economico di qualche tipo, non si poteva dire altrettanto per quasi tutti gli altri: erano stati rubati riassunti di libri in corso di scrittura, note di lettura, e decine e decine di manoscritti di autori relativamente o completamente sconosciuti (come sarebbe stato il mio caso). Era impossibile che qualcuno sperasse di ricavarne qualcosa. E infatti non ci provava: il secondo aspetto inspiegabile era che, di tutti i testi trafugati, nessuno è mai uscito dal computer del ladro.
Un terzo mistero poi era legato allo sforzo dietro a tutto ciò. I falsi domini registrati per simulare gli indirizzi degli addetti ai lavori erano più di cento, i soggetti impersonati varie centinaia. Gli scambi, per credibilità, non si limitavano a richieste di manoscritti, ma contenevano gossip di settore, chiacchiere personali, aggiornamenti. A volte, l’indirizzo falso di una persona nota era usato per presentare alla vittima un segretario inesistente, che poi avrebbe richiesto i manoscritti, in un gioco di specchi possibilmente senza fine. Questo tipo di attacchi, noti come social engineering, non richiede particolari competenze di programmazione o di informatica; ma solo tanto tempo, tanta pazienza, tanti tentativi. Chi mai poteva avere interesse a farli?
Ce lo si è chiesto per anni con un misto di agitazione e curiosità, in un settore in cui la passione per le storie di detective non è un hobby, ma una qualifica professionale. Chiunque fosse il responsabile, doveva avere una profonda dimestichezza con l’ambiente: conosceva modi di dire e idiosincrasie, ricordava dove andava in vacanza la tale scout e come si chiamava il partner della tale editor, e soprattutto sapeva imitare lo stile di scrittura delle vittime che impersonava (in un solo caso è stato smascherato, perché la persona a cui aveva scritto era certa che il suo capo non avrebbe mai detto “grazie” o “per favore”). Qualcuno temeva che fosse un’agenzia legata al cinema di Hollywood. Altri ipotizzavano che fosse un programma di addestramento per hacker in erba, che poi avrebbero usato le stesse tecniche per carpire segreti industriali veri. Altri ancora erano convinti che fosse una persona in particolare, un professionista noto per essere sgarbato e un po’ strambo.
Un giornalista del New York Magazine ha indagato ossessivamente sulla vicenda per anni, costruendo un database con centinaia di voci simile alle pareti coperte di foto dei complottisti. Una sua collega, giunta quasi al colpevole, ha ricevuto email di minaccia scritte tutte in maiuscolo. Era il 2020, o il 2021. Ci si chiedeva chi fosse da anni, ma nessuno sapeva niente.
L’arresto
Poi arriva il 2022. Il 6 gennaio un italiano di neanche trent’anni atterra all’aeroporto JFK di New York e prima che ne possa uscire lo arresta l’Fbi, con l’accusa di truffa telematica e furto d’identità. La notizia gira rapidamente nell’ambiente editoriale di tutto il mondo: è lui, hanno preso il ladro di libri. Si chiama Filippo Bernardini. E la risposta di quasi tutti è stata: Filippo chi?
Bernardini era effettivamente un addetto ai lavori. Aveva fatto uno stage in un’agenzia letteraria inglese e poi si era occupato di contratti internazionali per un gruppo editoriale, due posizioni che gli avevano permesso di imparare rapidamente i canali percorsi dai manoscritti, i toni e le abitudini di chi ne gestisce i flussi. Ha cominciato con le truffe per gioco, o forse per frustrazione, dopo che il suo stage non era stato rinnovato: voleva dimostrare a se stesso di essere ancora in grado di mettere le mani su testi inediti, sentirsi ancora “nel giro”. Ma anche dopo aver ripreso a lavorare nel settore non ha smesso, anzi.
Perché lo ha fatto? Perfino la memoria difensiva depositata dal suo avvocato d’ufficio si apre con questa domanda, ma come nelle deposizioni di Bernardini e nelle carte processuali non c’è una risposta univoca. A volte si parla, appunto, di un bisogno di rivalsa contro il settore in cui sognava di lavorare (che però è perdurato anche quando in quel settore ci è tornato). A volte invece del piacere intimo di avere fra le mani un libro che quasi nessuno al mondo ha letto. In altri casi si dice, genericamente, che si trattava di una “compulsione”, o di un’ossessione per il collezionismo nata nell’infanzia e imputata a una mai diagnosticata neurodivergenza.
Ciò che è certo è che ha impersonato centinaia di uomini e donne mettendo le mani su più di mille inediti – di nomi del calibro di Margaret Atwood o Ian McEwan, ma in larghissima misura di scrittrici e scrittori semisconosciuti.
Data la quantità, risulta improbabile che li abbia letti tutti. Di certo non li ha mai diffusi. Solo per registrare tutti quei falsi domini avrà speso migliaia di euro. “Non ho idea di cosa farmene di questo caso”, dirà la giudice prima di pronunciarsi al riguardo. “Non c’è niente che abbia senso”.
C’è poi un’altra cosa che non ha senso: quelli per cui sarebbe stato condannato Bernardini sono reati federali gravi, ma è difficile capire chi, di preciso, ne sia la vittima. Non ha guadagnato niente, nessuno ha perso nulla di preciso se non qualche notte di sonno (gli unici danni di cui dovrà rispondere saranno le spese legali di un gruppo editoriale). La persona da molti ritenuta a torto responsabile dei furti prima dell’arresto di Bernardini ha subìto un danno alla reputazione vago e inquantificabile, e qualcosa di simile vale anche per gli autori dei libri sottratti.
In molti, in rete, hanno chiesto di evitargli il carcere. Uno di loro, Jesse Ball, ha scritto in una lettera che “per una volta, qualcuno [nel mondo editoriale] era davvero appassionato di qualche cosa. […] Sono grato che al mondo ci sia ancora spazio per tanta arguzia.” Intervistata dal quotidiano canadese National Post, Margaret Atwood ha suggerito come punizione di “costringerlo a scrivere romanzi lunghissimi e sgraziati con un gerbillo parlante come protagonista”.
Indubbiamente, nessuno – neanche la pubblica accusa statunitense – ritiene che un comportamento del genere possa giustificare di rinchiudere in un carcere americano un uomo queer e neurodivergente, che a causa dei propri comportamenti si è ritrovato sotto i rilfettori in tutto il mondo, con un cumulo di debiti e senza più alcuna speranza di fare il lavoro dei propri sogni. Oltretutto, anche grazie alla scoperta della propria neurodivergenza, Bernardini sembra pentito e consapevole della gravità di ciò che ha fatto. Nella sua lettera alla giudice si scusa a più riprese, dichiarando di avere “le mani che tremano” al solo pensiero del numero di persone che ha ingannato e giurando di non volerlo fare più.
La giudice gli crede. Accetta un patteggiamento che gli evita ogni pena detentiva, oltre ai quattordici mesi di libertà vigilata già scontati durante il processo, e nessuna multa oltre alle spese legali da risarcire. Nel pronunciare la sentenza – come in tutto il dibattimento – sembra leggermente allibita. “Potete sedervi”, dice, al termine dell’udienza. “Mi aspetto di non vedere mai più una cosa di questo genere”.
Era il 23 marzo 2023. Bernardini mi avrebbe scritto esattamente tre mesi dopo.
Il ritorno
La storia sin qui è stata ricostruita da numerose inchieste giornalistiche e trova riscontro nella verità giudiziaria. Da adesso in poi comincia a sfumare. Nel periodo in cui ha scritto a me, Bernardini ha fatto lo stesso con altre persone. Lo faceva da un profilo social e da un indirizzo email che in passato aveva usato professionalmente, quindi non ci sono dubbi che fosse lui. I destinatari dei messaggi – contenenti estratti di libri che sarebbero usciti fra poco – erano, come me, scrittori o scrittrici, a volte i loro agenti o editori. Erano, che io sappia, solo italiani.
Stavolta le sue motivazioni erano più chiare. Era arrabbiato. “Nonostante abbiate cercato di rovinare me e la mia carriera in tutti i modi”, mi ha scritto quando gli ho chiesto come mai avesse il mio libro, “ho ancora molti amici nell’editoria che mi chiedono pareri sui libri che ricevono. Uno, purtroppo, era il suo. Non si preoccupi: provvederò a scrivere un commento negativo. Chi semina odio raccoglie odio”. Non ho idea di cosa intendesse. Era la prima volta che ci sentivamo.
Questo metodo – la generica minaccia di danneggiare le possibilità di un libro di essere tradotto – lo ha usato anche con altri. Ogni tanto fingeva di metterli erroneamente in copia in un’email in cui sconsigliava i loro libri a un qualche potente destinatario, che però non era mai identificato. Interazioni di questo tipo sono capitate ad almeno una decina di scrittrici e scrittori pubblicati in quel periodo. Nessuno, che io sappia, le prendeva come una minaccia. Si vedeva che la persona che c’era dietro non era del tutto in sé – quei comportamenti rischiavano di compromettere il suo patteggiamento, di farlo finire in un carcere federale americano – si poteva escludere che, vista la condanna, avesse ancora un ruolo editoriale che gli permettesse di nuocere al successo di un romanzo. Anche per questo nessuno ha mai sporto denuncia.
Ai misteri precedentemente risolti si è aggiunto quello del perché avesse ricominciato. Dopo qualche tempo, sui social di Bernardini sono apparsi messaggi pieni di insulti verso se stesso, come se l’autore stesse cercando di mostrare di essere stato hackerato o forse stesse avendo un momento di crisi. Poi i profili sono spariti, e – ufficialmente – anche lui.
Ufficiosamente no. L’ultimo capitolo di questa storia si fa ancora più sfumato, perché negli ultimi mesi qualcuno ha ricominciato di nuovo a mandare per email brani di libri inediti ai loro autori. Chiunque sia – e non c’è modo di risalire alla sua identità – ha cambiato sottilmente metodo: ora in calce alle email ci sono dei link a siti di file sharing in cui i testi, ancora non pubblicati, possono essere scaricati abusivamente. È un messaggio piuttosto minaccioso: potrebbe significare che, oltre a inviarne un pezzo agli autori, chiunque sia dietro a quelle email ha messo in rete i file inediti – il che sarebbe una novità, oltre che un reato più grave, perché in grado di causare un danno economico reale. Ma potrebbe anche sottintendere che, semplicemente, l’estratto nelle email è stato preso da lì.
Le tecniche di impersonamento sono le stesse: il o la responsabile crea un indirizzo email simile a quello di una persona del settore e chiede di farsi mandare i manoscritti. Spesso il nome che imita è quello dell’autrice o dell’autore, e scrive agli editori a ridosso della data d’uscita chiedendo un pdf con delle bozze aggiornate dell’impaginato. A differenza che in passato, però, queste email erano firmate. In calce, dopo il link per scaricare il manoscritto da un archivio pirata, c’era il nome Filippo Bemardini.
Leggetelo con attenzione. Già. Era quindi un imitatore che aveva imparato i metodi del Bernardini originale, applicandoli al loro inventore? Era il vero Bernardini? Ennesimo, piccolo mistero in questo piccolo giallo letterario.
Era destinato a rimanere insoluto. È successo a una giornalista di un quotidiano nazionale, a una scrittrice già finalista al premio Strega, a un giallista famoso. Ma anche a una donna il cui primo romanzo non è ancora uscito (chiunque ne ha chiesto in modo fraudolento il file doveva quindi avere accesso a informazioni riservate per sapere della sua esistenza: come aveva fatto), e a un esordiente sotto i trent’anni. Nessuno ha presentato una denuncia. Un’indagine con tracciamento di server e rogatorie internazionali sembrava un po’ troppo per quello che resta, in sostanza, un crimine di poco impatto, più bizzarro che dannoso. La storia si sarebbe probabilmente fermata qui, arricchita di quando in quando da un nuovo nome sulla lista, e la coscienza che il ladro di libri fosse ancora attivo sarebbe rimasta viva nel settore come una diceria a cui si è ormai fatto il callo, un segreto di tutti.
Poi però è toccato al libro del papa.
La notizia l’ha riportata per primo Mattia Ferraresi sulla testata statunitense Airmail: qualcuno si è finto Carlo Musso, co-autore dell’autobiografia che papa Francesco ha pubblicato di recente con Mondadori, e ha richiesto all’editore una versione aggiornata delle bozze varie settimane prima dell’uscita. La casa editrice se ne è accorta solo perché, successivamente, dallo stesso indirizzo è partita una email con una richiesta che Musso non avrebbe mai fatto: a quel punto, ricostruita la truffa, si è anche scoperto che il manoscritto era già stato reso disponibile su un archivio di libri piratati.
L’autobiografia del papa, Spera – che al momento è in testa alla classifica di vendite italiana – era uno dei libri più attesi dell’anno in tutto il mondo, e il rischio economico ha comportato una reazione che nessun furto di manoscritti aveva mai suscitato. Dopo pochi giorni il file è diventato irreperibile, e sono in corso indagini in vari paesi europei. In qualche modo, prima o poi, il responsabile salterà fuori e forse, finalmente, questo mistero così inutile non sarà più tale.
Nel frattempo, il suo impatto principale è quel velo di sospetto che si è posato sulle interazioni personali di un intero settore. I file si condividono con password comunicate attraverso altri canali, o pochi capitoli per volta. Se arriva un’email, si controlla due volte l’indirizzo del mittente. L’incertezza, una volta che si è insediata in rapporti prima ingenuamente fiduciosi, probabilmente non se ne andrà neppure quando – e se – questo nuovo ladro di manoscritti sarà scoperto.
Per molti versi, Bernardini ha mostrato che era possibile – o facilissimo – infiltrarsi a ogni livello di un settore industriale internazionale senza che per anni nessuno se ne accorgesse. Questa consapevolezza resterà. Quando un giornalista statunitense mi ha scritto per chiedermi di questa storia, ho verificato attraverso una lunga catena di conoscenze che il numero di telefono a cui mi aveva chiesto di ricontattarlo fosse davvero suo. Lo stesso ha fatto Mattia Ferraresi quando ci siamo scritti mentre stava lavorando al suo reportage. Un sabato sera, prima dell’uscita dell’articolo, Ferraresi stava guidando quando ha ricevuto una chiamata da un numero sconosciuto. “Sono Filippo Bernardini”, ha detto la voce. Ma in realtà ero io.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it