27 ottobre 2017 17:31

Gli ultimi sondaggi sulle elezioni regionali in Sicilia del 5 novembre danno al candidato del centrodestra Nello Musumeci più del quaranta per cento delle preferenze, con un distacco di più di dieci punti sul secondo, Giancarlo Cancellieri del Movimento 5 stelle. Sempre gli ultimi sondaggi dicono che alle prossime elezioni politiche l’alleanza tra Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia probabilmente surclasserà Partito democratico e Movimento 5 stelle. Insomma, come nei sequel fatti male, sembra inevitabile il ritorno di Silvio Berlusconi. Dopo quella che fu un’uscita di scena abbastanza ingloriosa, nel 2011, sembra che non si sia trovata in Italia nessuna alternativa credibile di lungo respiro.

L’involuzione sociale (le migliori generazioni che vanno a studiare e lavorare all’estero, la disoccupazione giovanile quasi al 40 per cento, il ceto medio impoverito) si è tradotta, rispetto alla dimensione politica, nella crisi della rappresentanza. Leader molto arroganti, che avevano come tratto comune l’essere cresciuti nel lungo set berlusconiano, si sono creduti machiavellici nello scovare una formula magica per trasformare il disastro del postberlusconismo in un nuovo miracolo italiano. La mandragola che hanno usato è il populismo: Matteo Renzi quello della rottamazione, Beppe Grillo quello dell’onestà, Matteo Salvini quello della ruspa.

Qualcuno ci ha creduto, almeno chi era di bocca buona, per qualche stagione; oggi la pietra focaia per accendere gli animi è stata consumata. L’idea di polarizzare l’opinione pubblica intorno a un significante vuoto, che era “nuovi contro vecchi” per Renzi, “onesti contro corrotti” per Grillo, “italiani contro stranieri” per Salvini e compagnia, non ha più molta capacità di seduzione. Il quarantenne Renzi sa già di vecchio, i pentastellati al governo delle città non sembrano diversi dai politici che li hanno preceduti, Salvini ha le armi della retorica antimigranti spuntate dalla politica del ministro Minniti.

Il vantaggio che paradossalmente Berlusconi ha sui suoi avversari è che rappresenta il passato

E, come in una farsa, sulla scena politica di questa campagna elettorale prossima ventura si sta riaffacciando Berlusconi, con un ruolo da protagonista e una maschera ormai logora. Dal 1994, quando scese in campo, sono passati 23 anni. Era allora un’anomalia democratica, oggi dimostra la capacità della politica italiana di cronicizzare le sue patologie fino a renderle fisiologiche. Ma è anche un altro il vantaggio che paradossalmente Berlusconi mantiene sui suoi avversari: rappresenta il passato.

Nell’immaginario politico, oggi il futuro è sinonimo di angoscia, corruzione e degenerazione. Indicare un cammino a ritroso, verso il passato, si trasforma all’opposto in un itinerario di purificazione dai danni che il futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. Mai come in questo scorcio del nuovo millennio, il futuro non è una materia spendibile da parte di un politico che cerchi consenso, mentre il passato sembra assurdamente contenere una riserva infinita di possibilità.

Un’analisi acuta della mancata elaborazione del berlusconismo l’aveva svolta Ida Dominijanni nel suo libro Il trucco (2015), quando non si vedeva ancora così clamorosamente come l’antiberlusconismo moralista o quello delle manette non solo non avevano contrastato o sconfitto nulla; ma in realtà avevano concorso alla permanenza del suo spettro.

C’è però una responsabilità in più ascrivibile a quell’opposizione che s’illuse di trovare nell’antiberlusconismo non solo un collante ma anche un ideale in grado di tenerla unita, e che poi si è vista incapace di formare un’alternativa politica. È la colpa di aver squalificato, ridimensionato e denigrato le accuse che provenivano dalle donne. Invece di comprendere come il discorso femminista fosse l’unico a poter minare il fondo dell’eteropatriarcato rappresentato da Berlusconi, si fece di queste denunce un caso di gossip, di stigmatizzazione morale, di vessillo identitario.

Le complicità patriarcali con il potere neoliberista berlusconiano crearono un cordone sanitario a difesa del mondo rappresentato da quel potere. A cosa assistemmo? Alle ironie su Naomi Letizia, Ruby soprannominata “Rubacuori”, Mara Carfagna e Patrizia D’Addario trattate come prostitute e Veronica Lario come una vittima scaltra.

Non è un caso allora come questa campagna elettorale – i cui principali protagonisti sono quasi tutti maschi, dai leader di Casapound a quelli di Rifondazione comunista – stia cominciando all’ombra del caso Weinstein e dei suoi strampalati effetti italiani: vittime chiamate a rispondere dei loro comportamenti, processi pubblici che non danno la parola alla vittima.

Ma già rispetto a pochi anni fa, il mondo sta cambiando e anche l’Italia con tutte le sue arretratezze vede la nascita di nuovi movimenti femministi come Non una di meno, la mobilitazione per lo ius soli, la campagna Ero straniero, la consapevolezza diffusa dei diritti civili delle comunità lgbt. Vedremo nei prossimi mesi di campagna elettorale.

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