26 luglio 2019 12:23

Un’opportunità sprecata, che la sinistra spagnola rischia di rimpiangere amaramente. Il 25 luglio il tentativo del premier socialista Pedro Sánchez di farsi riconfermare è stato bocciato dal congresso dei deputati. A favore di Sánchez hanno votato solo i 123 deputati del Partito socialista e il deputato del Partito regionalista di Cantabria, mentre il partito di sinistra Podemos, che ha sostenuto Sánchez da quando ha preso il posto del conservatore Mariano Rajoy con una mozione di sfiducia nel giugno del 2018, ha scelto di astenersi.

Quella di Podemos è stata una decisione estremamente sofferta, giunta al termine di un’estenuante trattativa cominciata all’indomani delle elezioni del 28 aprile e protrattasi fino all’ultimo minuto. Il partito guidato da Pablo Iglesias era considerato l’interlocutore naturale di Sánchez, ma il negoziato si era subito complicato e i toni erano ben presto diventati molto aspri.

Somma zero
I motivi erano prima di tutto strategici. In questi mesi Podemos non era riuscito a capitalizzare il sostegno esterno al governo Sánchez ed era uscito dalle elezioni pesantemente ridimensionato, passando dal 21,2 al 14,3 per cento dei voti. Per questo stavolta chiedeva una partecipazione organica al governo e ministeri pesanti come quelli delle finanze, del lavoro e dell’ambiente, cruciali per rivendicare il merito delle riforme sociali progressiste che sarebbero state al centro del programma.

I socialisti preferivano continuare sulla strada del governo monocolore, anche per non spaccare il partito, all’interno del quale molti non hanno digerito la svolta a sinistra imposta da Sánchez e non hanno nessuna fiducia in Podemos, che considerano troppo radicale e inaffidabile. L’ala destra del partito non ha mai fatto mistero di preferire un accordo con i centristi di Ciudadanos.

Negli ultimi giorni le distanze sembravano colmate. Iglesias aveva rinunciato a entrare personalmente nel governo, accettando una delle principali linee rosse tracciate da Sánchez, e i socialisti avevano offerto a Podemos di nominare figure politiche e non semplici tecnici. Ma erano disposti a cedere solo ministeri di secondo piano, come la salute, la casa e l’uguaglianza.

Al di là della tattica, il fallimento è anche una questione di cultura politica

A far pendere i socialisti verso la linea dura sono stati anche gli ultimi sondaggi, che li danno in crescita e vicini al 40 per cento: secondo i loro calcoli Podemos, che invece rischia un ulteriore ridimensionamento, avrebbe finito per cedere piuttosto che tornare alle urne. In effetti, durante il dibattito prima del voto Iglesias ha lanciato un’irrituale ultima offerta, accettando le condizioni del Psoe e chiedendo in cambio solo la responsabilità delle politiche per l’impiego. Ma era troppo tardi.

Al di là della tattica, però, il fallimento è anche una questione di cultura politica. Rispetto agli altri paesi europei dove negli ultimi anni i socialdemocratici e la sinistra hanno trovato accordi per governare, come in Portogallo e più recentemente in Finlandia e in Danimarca, in Spagna la frammentazione del campo progressista è stata più recente e traumatica. Podemos è nato nel 2014 dalle proteste del 15-M, che avevano come obiettivo il rovesciamento del sistema politico tradizionale e consideravano il Partito socialista un nemico al pari degli altri.

La vecchia guardia socialista invece non ha ancora abbandonato la speranza di tornare al precedente ordine bipolare, riprendendosi il ruolo di forza egemone del centrosinistra. Le linee di separazione all’interno dell’elettorato di sinistra sono ancora piuttosto fluide e i due partiti hanno dato l’impressione di considerare la trattativa un gioco a somma zero, in cui il vincitore si sarebbe aggiudicato anche il voto degli indecisi.

Le recenti difficoltà del centrodestra, con il Partito popolare e Ciudadanos che rischiano di pagare le alleanze strette nelle amministrazioni locali con il partito di estrema destra Vox perdendo il sostegno dei moderati, contribuiscono ad alimentare le speranze dei socialisti di tornare a governare da soli. Ma lo scenario potrebbe cambiare rapidamente.

Appello al dialogo
In base alla legge spagnola c’è tempo fino a settembre per tentare un’altra investitura, dopodiché si tornerebbe a votare per la quarta volta in quattro anni, probabilmente il 10 novembre. In questo caso la campagna elettorale potrebbe svolgersi all’indomani della sentenza del processo contro i dodici indipendentisti catalani arrestati dopo il tentativo di secessione del 2017, attesa in autunno. Se le tensioni in Catalogna dovessero riaccendersi, il rischio è che a trarne vantaggio siano nuovamente i nazionalisti e gli indipendentisti, con la sinistra presa in mezzo e messa di fronte alle sue contraddizioni.

Dopo il fallimento dell’investitura, Iglesias ha rivolto a Sánchez un appello a riprendere le trattative per trovare un accordo a settembre. Il Psoe e Podemos hanno un’altra possibilità per dare vita a un governo di sinistra che archivi definitivamente gli anni di Rajoy e dell’austerità. Il programma è in larga parte già stato concordato e le distanze sembrano colmabili. E se la conseguenza fosse l’arrivo dell’estrema destra al governo, un altro fallimento sarebbe davvero imperdonabile.

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