06 luglio 2018 15:06

Gentile bibliopatologo,
mi trovo nella strana, ma penso comune, condizione di idolatrare un libro. Uno di quei libri che insegnano qualcosa a ogni paragrafo, e dove anche solo due righe richiedono un pomeriggio intero di riflessioni. Questo libro è il motivo per cui ho smesso di scrivere. È da dieci anni che lo sto leggendo. L’ho lasciato, l’ho ricominciato e così daccapo, ogni volta. Ora ci sto riprovando, ma il vortice è lo stesso. Come devo fare?

–Luigi D.

Caro Luigi,
liberarsi della religione è meno facile di quanto si creda. Prendiamo pure per buona la ricostruzione poliziesca della Gaia scienza: Dio è morto e l’abbiamo ucciso noi. E sia. Ma come sbarazzarsi del cadavere, una volta compiuto il delitto? È qui che cominciano i problemi. Pensa ai rivoluzionari francesi, che ci avevano messo senza dubbio dell’impegno: ma hai voglia a chiudere chiese e conventi, cancellare le feste liturgiche e distruggere le immagini dei santi, se poi ti ritrovi con il tempio della Ragione, il culto dell’Essere supremo e la divinizzazione di Marat.

Qualcosa di simile vale per il testo sacro: sembra facile farne a meno, in teoria, ma già nel 1799 Friedrich Schlegel scriveva che “ogni opera è una Bibbia e ogni pubblico una chiesa invisibile”. Ed eccoci, da allora, a inseguire la chimera del libro assoluto, del testo sacro secolare, dell’opera-mondo. Per due secoli, dai romantici ai modernisti e oltre, è stato tutto un pullulare di bibbie minori, di romanzi e poemi dalle ambizioni sovrumane: il Faust di Goethe, il Livre vagheggiato da Mallarmé, la rifondazione mitologica di Wagner, i romanzi-fiume di Proust, Mann o Musil, i Cantos di Pound, la Terra desolata di Eliot, il Finnegans wake di Joyce, e poi ancora Tolkien e i suoi sodali – per tacere delle pretese prometeiche di certi sistemi filosofici che si proponevano di fornire, come diceva Maurice Blanchot di Moby Dick, un “corrispettivo scritto dell’universo”.

A quanto pare ti sei imbattuto nel tuo testo sacro, o meglio: hai sacralizzato un testo profano e ora lo rumini fino allo sfinimento, come un monaco nella sua cella. Voglio immaginare che sia uno di questi classici moderni labirintici o monumentali, ma importa fino a un certo punto che tu mi dica il titolo: sono molti i libri presso i quali vale la pena sostare per dieci anni, o anche per una vita intera. E sai perché? Perché ti costringono a leggerne altri mille. Su qualunque dizionario delle citazioni troverai, in moltissime varianti letterarie o proverbiali, due espressioni speculari. Una dice: “timeo hominem unius libri”, temo l’uomo di un solo libro; l’altra è, semplicemente, “homo unius libri”, uomo di un solo libro – ma inteso in senso elogiativo. La prima formula è spesso citata in difesa del libertinismo letterario (“Guardati da colui che non ha letto che un libro solo”, scrive Giacomo Casanova); la seconda, più raramente, per invitare a non disperdersi in mille letture superficiali (“es estudiante notable el que lo es de un libro solo”, sembra ribattere Lope de Vega).

Ma non è tutto. Sai qual è la cosa più buffa? Entrambe le citazioni sono attribuite, per vie molto apocrife, alla stessa fonte, Tommaso d’Aquino: l’uomo che per capire un solo libro, la Bibbia, aveva letto tutti i libri del mondo.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it

Dal 5 al 7 ottobre Guido Vitiello terrà un workshop sull’arte della recensione al festival di Internazionale a Ferrara.

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