12 aprile 2019 15:17

Gentile bibliopatologo,
vorrei capire qualcosa in più sul rapporto patologico con il libro-oggetto, in particolare sul terrore di modificare il libro appena acquistato, lasciandolo intatto, così come appena uscito dalla tipografia, per sempre. Conosco persone che temono addirittura il contatto fisico solo per paura di sgualcire, graffiare e sporcare le copertine oppure i fogli, che non sottolineano i testi nemmeno a matita, che non piegano le pagine per evitare di lasciare tracce visibili sulla carta, che addirittura non aprono troppo i libri durante la lettura per non rovinare la costa laterale… Cosa c’è dietro?

-Carlo

Caro Carlo,
sono stato anch’io fresco di stampa, intorno alle 20.30 di sabato 15 novembre 1975, appena uscito dalla tipografia materna; fa fede il braccialetto della clinica, che considero il mio colophon. Ero rilegato in pelle. Poi la vita ha cominciato a sgualcirmi, ed eccomi qua. Non ho speranze di tornare in mint condition, né di scampare al tarlo della carta, salvo imbalsamazioni ben fatte. Posso però riversare queste mie chimere nostalgiche – arrestare il tempo o risalirne il corso a ritroso, come un salmone – sui libri della mia biblioteca. Qualcosa di simile osserva lo psicoanalista americano Werner Muensterberger in un libro che ti raccomando, Collecting: an unruly passion:

La preoccupazione per la provenienza e il pedigree degli oggetti collezionati è comprensibile e storicamente valida. Ma questo non significa che tali inclinazioni non si fondino sul pensiero magico e su emozioni irrazionali. Lo stesso si può dire della preferenza per oggetti perfetti e intatti, come una moneta nuova di zecca o una prima edizione intonsa di un libro desiderabile. (…) L’ossessione per la perfezione può essere legata a timori irrazionali o essere una manifestazione di difese ostili-distruttive, o può attutire una paura inconscia delle proprie imperfezioni.

Che siano libri, giocattoli o sante reliquie, dice Muensterberger, si tratta sempre di oggetti magici; e la loro funzione psicologica è quella di rappresentare dei sostituti del collezionista, dei doppi del suo sé malcerto e vacillante. La perfezione esteriore della collezione, le schiere di libri intatti e incorrotti, i tesori che danno l’illusione di sottrarsi alla tignola e alla ruggine evangelica, tutto questo rivela un tentativo, intimamente violento come tutti i tentativi disperati, di tacitare il caos interiore, mettere la sordina all’angoscia della morte, soffocare il senso di caducità, nascondere agli altri e a sé stessi la consapevolezza della propria inemendabile imperfezione.

Tetra Images/Getty Images

Ecco, caro Carlo, cosa c’è dietro. A volte è una nevrosi lieve e tutto sommato alleata della ragionevolezza, come nel caso di chi fa attenzione a non squadernare troppo i libri. Altre volte invece è una nevrosi eroica, discendente dell’antica pazzia melanconica. E allora ci si mette sulle tracce di un libro appartenuto a un immortale del passato, nella speranza che un poco del suo mana sia rimasto impigliato tra le pagine – ed è quasi come comprare titoli nobiliari, crearsi ad arte una genealogia favolosa, altra fantasia diffusa tra i melanconici. Oppure si cerca di preservare in eterno lo stato nascente del libro, schermandolo da ogni contatto con il tempo e con il mondo. Prima che le Edizioni dell’Utero ci mettessero in commercio, e che un’ostetrica non abbastanza bibliofila maneggiasse il suo tagliacarte sul nostro cordone, rovinandoci per sempre la rilegatura.

Il bibliopatologo risponde è una rubrica di posta sulle perversioni culturali. Se volete sottoporre i vostri casi, scrivete a g.vitiello@internazionale.it.

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