16 dicembre 2019 16:54

Gentile bibliopatologo,
ogni volta che incontro un libro che per qualche misteriosa ragione so ancora prima di leggerlo che sarà importante per me, lo compro e lo regalo a una persona che so (per le stesse misteriose ragioni) che ne ha bisogno e che l’amerà moltissimo. Solo anni più tardi, quando (scenario 1, molto raro) mi decido a spendere il denaro per comprarlo o (scenario 2, più probabile) lo trovo in biblioteca, questi libri mi segnano e fanno crescere esattamente come mi avevano promesso, se non di più. Quando il libro riesce a tornare nella mia vita, pertanto, oltre al piacere dolceamaro di aver finalmente consumato la promessa che mi aveva offerto anni prima, mi godo anche la soddisfazione di avergli trovato una casa accogliente quando ne aveva bisogno. A volte mi sento veramente una pazza… Può aiutarmi a trovare un senso in tutto questo?

-Beatrice

Cara Beatrice,
dopo la disfatta di Azio, il triumviro Marco Antonio aveva esclamato: “Io ho soltanto quel che ho donato”. La frase, tramandata in un verso del poeta Gaio Rabirio, piacque molto a Seneca, che così la commenta nel De beneficiis:

Ciò che tu ammiri, ciò che ti fa credere alla tua ricchezza e alla tua potenza, è macchiato, fin che lo conservi, da nomi abietti. Sono ‘una cosa’, ‘uno schiavo’, ‘il denaro’: quando l’hai donato, diventa ‘un beneficio’.

Immagino che ai libri che tu doni avvenga la stessa trasfigurazione. E non è una metamorfosi solo verbale, come rivela la storia di Casilda da Toledo, figlia dell’emiro. Mossa dalla pietà per i prigionieri cristiani, la principessa, di nascosto dal padre, portava loro del cibo raccolto nel grembiule. Un giorno, sorpresa dai guardiani, fu perquisita; ma in quell’istante, per miracolo, i pani si trasformarono in rose. L’episodio leggendario ha ispirato un magnifico quadro di Francisco de Zurbarán. Come vedi, donare cambia aspetto alle cose donate. E nella tua abitudine di regalare i libri che ti sembrano più preziosi, forse insegui i benefici di questa piccola transustanziazione. Non vorrei sermoneggiare troppo, ma credo davvero che le cose prendano un’altra forma nel momento in cui siamo disposti a sacrificarle. Quando accettiamo di perderle, stiamo in realtà guadagnando la possibilità di osservarle nella loro natura, che è indipendente da noi, perché squarciato il velo delle finzioni giuridiche nulla veramente ci appartiene, neppure il nostro corredo funebre.

Sara De Bernardi, EyeEm/Getty Images

D’altro canto, per prudenza, faremmo bene ad ascoltare quel che ha da dire l’avvocato del diavolo, incarnato per l’occasione dal Jean-Jacques Rousseau della sesta promenade: “Quando faccio un dono, è un piacere che mi offro”. È la confessione, franca fino alla sfacciataggine, di un compiacimento morale tutto narcisistico, di un io che si bea impudicamente della propria benevolenza usando il dono e il suo destinatario come specchi in grado di rimandargli un’immagine ingigantita e divinizzata. Non ci sarà nel tuo impulso a donare libri un briciolo di quello stesso spirito di autoadulazione, già che in fin dei conti non ti privi del libro, ma te lo procuri qualche tempo dopo, quando è stato rosolato al punto giusto nella virtù?

Ma questo, appunto, è l’avvocato del diavolo, e se c’è un momento dell’anno in cui mettergli il bavaglio sono proprio le feste natalizie. Ora lasciamo pure che i pani, i libri, i telefonini, i maglioni, le borse, i gadget inutili e le bottiglie di vino si trasformino in rose nel grembiule dei nostri pacchetti. Di questo lato oscuro, come di tutto il resto, parleremo dopo. Buone feste!

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