08 febbraio 2018 17:43

Anna Smith su TimeOut scrive che a un party a casa di Kristin Scott Thomas vale sempre la pena di andarci. Probabilmente ha un’esperienza diretta e vogliamo crederle. A giudicare dalla prima breve sequenza di The party, di Sally Potter, però, viene da chiedersi se sia davvero una buona idea. Altri direbbero: “Io a una festa dove c’è Cillian Murphy ci andrei anche scalzo…”. E alla fine il discorso vale anche per Emily Mortimer, Bruno Ganz e Patricia Clarkson. L’idea poi che uno dei padroni di casa sia Timothy Spall può suonare come una garanzia.

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A prima vista il party officiato dalla neoministra ombra della sanità (Scott Thomas) sembra una riunione intima e informale per celebrare una nomina importante. Un po’ per volta, però, si perdono i punti di riferimento e, una rivelazione dopo l’altra, la commedia scivola su un crinale sempre più drammatico. In quello che è in tutto e per tutto un film teatrale, leggermente claustrofobico e forse un po’ meccanico nello schiudersi delle scatole cinesi che ogni personaggio ha in tasca, prevale una sensazione d’incertezza minacciosa che rimane irrisolta. Fa pensare alla condizione di una generazione (quella della regista) che ha combattuto (o almeno ha creduto di combattere) per migliorare il mondo che ora la tradisce, senza alcun riguardo. Non è proprio il festone che tutti speravamo, ma ce n’è abbastanza per qualche sana riflessione.

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Nel lontano 1996 Stanley Tucci firmò la sua prima regia, Big night. Un bellissimo piccolo film su una coppia di fratelli italoamericani decisi a esportare oltreatlantico la vera cucina italiana e destinati a un dolce fallimento. Era il sorprendente esordio dietro la macchina da presa di un attore che aveva già una discreta filmografia alle spalle, ma che non aveva ancora realmente sfondato. Big night faceva immaginare una carriera diversa da quella che l’attore ha poi costruito recitando una quantità impressionante di film, di ogni genere. Pochi invece sono rimasti i film firmati come regista.

In Final portrait. L’arte di essere amici, per la prima volta Stanley Tucci si dedica esclusivamente alla regia, senza comparire nel film. I protagonisti sono Geoffrey Rush nei panni dell’artista svizzero Alberto Giacometti, Armie Hammer nella parte dello scrittore statunitense James Lord, che di Giacometti fu il biografo. Può sembrare curiosa la scelta di Tucci di ritrarre un celebrato artista che a sua volta ritrae uno scrittore che diventerà il suo biografo. Ma se si pensa che il padre di Stanley era un insegnante di arte e la madre una scrittrice, la cosa appare molto più naturale. Nel cast, nel ruolo di Diego Giacometti, fratello di Alberto, c’è anche il fedelissimo Tony Shalhoub che in Big night interpretava il fratello cuoco di Tucci e che recentemente abbiamo molto apprezzato nei panni di Abe, il severo padre di Rachel Brosnahan nella divertente serie The marvelous Mrs. Maisel.

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Sempre dal Regno Unito (come The party e Final portrait) arriva I primitivi, di Nick Park, che racconta la dannazione della tribù degli inventori del calcio agli albori della civiltà umana. Tribù, età della pietra, football e Regno Unito mi fanno venire in mente il libro dell’etologo (inglese) Desmond Morris, La tribù del calcio, ripubblicato un paio d’anni fa da Rizzoli, che dovrebbe trovarsi nella biblioteca di chiunque sia tifoso o quantomeno abbia apprezzato Febbre a 90° di Nick Hornby.

Tutto molto british, insomma. Tra l’altro, molti di noi, magari senza neanche saperlo, devono molto a Nick Park. Mi riferisco ai genitori sopraffatti da giustizieri in pigiama, maiali ridanciani e scimmiette curiose che provano un minimo di sollievo quando sul piccolo schermo compare Shaun the sheep, la pecora anticonformista inventata proprio da Nick Park e dagli altri geniali autori della britannicissima Aardman Animation, quelli di Wallace & Gromit, delle galline in fuga e del coniglio mannaro, che con la loro ironia sottile ci salvano dall’ennesima pallosa lezioncina moraleggiante imposta dai cartoni animati per i più piccoli.

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A rompere il dominio britannico delle uscite cinematografiche del finesettimana ci pensa l’americanissimo Clint Eastwood che salta su un treno diretto a Parigi. Non un treno qualunque però, ma il convoglio ad alta velocità in viaggio da Amsterdam a Parigi in cui, nell’agosto del 2015, più o meno all’altezza del confine tra Belgio e Francia, un ragazzo di 26 anni di origini marocchine uscì dal bagno armato fino ai denti, probabilmente intenzionato a compiere una strage.

Chi conosce i fatti di cronaca, sa com’è andata. Per chi ne sa poco o niente, Eastwood ha pensato di raccontarli in Ore 15:17. Attacco al treno. Non solo. Nei ruoli dei tre ragazzi statunitensi che hanno affrontato l’attentatore ha scritturato i veri protagonisti della vicenda: Spencer Stone, Anthony Sadler e Alek Skarlatos. A giudicare dalle prime critiche pubblicate dalla stampa anglosassone, l’operazione non ha convinto tutti. In difesa di Clint Eastwood, a parte il New York Times, parlano la sua filmografia e la sua indiscutibile onestà artistica.

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In quota san Valentino esce anche Cinquanta sfumature di rosso, di James Foley, che dovrebbe essere l’ultimo dei film tratti dai romanzi di E.L. James, almeno al netto di remake e reboot.

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