22 marzo 2018 21:21

Foxtrot di Samuel Maoz ha vinto il gran premio della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia e arriva nelle sale in un fine settimana affollato di film interessanti. Una parte del film è ambientato nella bella casa di Tel Aviv dove vivono Michael e Dafna Feldman. L’altra parte invece si svolge a un checkpoint in mezzo al nulla dove Jonatan, il figlio di Michael e Dafna, presta servizio militare. Sulle qualità artistiche del film vi rimando alla recensione di Francesco Boille. Ma vale la pena di soffermarsi su alcune cose.

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È davvero difficile immaginare come dev’essere vivere in un paese perennemente in stato d’allerta, gestire la paura degli attentati terroristici, l’aggressività di un governo per cui la miglior difesa è l’attacco, conciliare uno stile di vita occidentale con i precetti di una religione severa, amministrare la pesante eredità dell’olocausto insieme a un senso dell’umorismo e dell’assurdo che fonda su un misto di ironia e pessimismo il suo essere irresistibilmente umano.

Foxtrot è stato aspramente criticato dalla ministra della cultura israeliana Miri Regev che lo ha definito “bugie travestite da arte” (dopo tra l’altro averlo finanziato, anche se in parte e indirettamente, attraverso l’Israel film fund). Maoz ha risposto alle critiche affermando che il film è semmai un atto d’amore nei confronti del suo paese. Mi piace quindi pensare che Foxtrot sia un film profondamente israeliano e perciò prenderlo come punto di riferimento per provare a capire, almeno un po’. Da leggere anche le cinque opinioni sul film scelte dal quotidiano israeliano Haaretz. E questa è la commedia della settimana. Perché negli altri film interessanti in uscita non c’è traccia dell’ironia e del senso dell’umorismo di Samuel Maoz.

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Petit paysan, esordio di Hubert Charuel, ha vinto tre premi César: quello per il miglior attore, andato al protagonista Swann Arlaud, quello per la miglior attrice non protagonista, Sara Girardeau, e quello per la miglior opera prima. Per Pierre (Arlaud) le mucche da latte che alleva non sono solo il suo lavoro, sono tutta la sua vita. Ci vive insieme, gli dedica tutto il suo tempo, le sogna anche la notte. Quando una tremenda epidemia colpisce alcuni allevamenti in Francia, per Pierre comincia un incubo. Rischia infatti di essere costretto ad abbattere tutti i suoi animali. Tanto più che sua sorella è la veterinaria della zona, incaricata di tutti i controlli sanitari.

Il film di Charuel non può essere definito animalista. Semmai agricolo. Al centro del film c’è sempre Pierre che si batte contro le leggi degli uomini, ma non necessariamente per affermare le leggi della natura. Come scrive Laura Tullier sui Cahiers du cinéma, Petit paysan è “un triste e sanguinante epitaffio della campagna francese”. In ogni caso le vacche di Pierre, alcune in particolare, diventano dei personaggi per i quali cominciamo a nutrire sentimenti di paura, compassione e speranza, proprio come il protagonista del film.

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Un sogno chiamato Florida è forse più convenzionale del film precedente di Sean Baker, Tangerine. Ma con quello condivide un’ambientazione particolare, ai margini o meglio poco lontana da celebri scenari da cartolina. Tangerine, girato interamente con degli iPhone, seguiva Sin-Dee Rella, sex worker transessuale, per una lunga vigilia di Natale in una Hollywood parallela a quella dei grandi studios e delle ville delle star. Un sogno chiamato Florida è ambientato in un motel viola che si chiama Magic Castle, poco lontano dal Magic Kingdom, cioè il parco divertimenti Disney. Diciamo pure poco lontano dall’uscita posteriore del parco.

Nel motel vive Moonee, una bambina di otto anni, apparentemente spensierata, insieme alla madre Halley, una ragazza un po’ scombinata che si arrangia in vari modi per tirare avanti. Su di loro vigila, come può, il manager del motel, Bobby, interpretato da Willem Dafoe che con questo ruolo si è guadagnato la terza candidatura all’Oscar. Mentre seguiamo Moonee nelle sue scorribande estive insieme agli amichetti, lentamente capiamo che tutto il suo universo vive all’ombra del vicino parco di divertimenti. Il Magic Castle, per esempio, è pronto ad accogliere i turisti che non trovano posto nei lussuosi hotel del parco, o che si sbagliano e prenotano al castello invece che al regno. E capiamo anche che le illusioni del luna park non sono sufficienti a mantenere in vita il sogno americano. Fantastici i bambini. Mi hanno fatto ricordare quanto potessero essere lunghe le estati dell’infanzia.

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Direttamente dal Bergamo film meeting cominciano a girare per le sale anche due film del regista romeno Adrian Sitaru. Fixeur e Illegittimo. Sitaru fa parte della nuova e interessante leva del cinema romeno di cui Cristian Mungiu e Cristi Puiu sono gli autori più celebrati. I suoi due film, realizzati nell’arco di pochissimo tempo, raccontano storie diverse ma, condividendo una grande semplicità e un assoluto realismo, compongono un ritratto nitido della Romania contemporanea.

Il protagonista di Fixeur, Radu è un aspirante giornalista di Bucarest che si dà da fare come fixer. Viene ingaggiato dalla troupe di una tv francese per rintracciare una ragazzina minorenne coinvolta in un traffico internazionale di prostituzione che l’ha trascinata dal suo paesino alle strade di Parigi. L’ambizione spinge Radu a mettere da parte ogni scrupolo verso quella che è poco più di una bambina per fare carriera. Con la stessa determinazione, incita il figlio della sua compagna a impegnarsi in una gara di nuoto. Insieme a lui arriviamo tutti a chiederci cosa ci interessa di più: vincere una gara, ottenere un lavoro prestigioso o conservare uno straccio di umanità?

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Con Illegittimo il cerchio si stringe su un ambiente familiare sull’orlo di un precipizio. I figli, tutti adulti e “moderni”, scoprono che il padre, ai tempi del regime di Ceausescu, aveva denunciato delle donne che volevano abortire. Durante un pranzo lo incalzano, accusandolo di essere un ipocrita e un delatore. Il padre, chiaramente antiabortista, risponde che voleva solo impedire un’ingiustizia. Ma non è tutto qui. I figli che accusano il padre di essere un bugiardo, due di loro in particolare, presto saranno costretti a fare i conti con segreti inconfessabili. Più che prendere una posizione sul diritto all’aborto, Sitaru, come scrive Serge Kaganski su Les Inrockuptibles, sembra voler auscultare le pulsazioni della Romania contemporanea a proposito di una grande questione etica. E lo fa con apertura di spirito e con un grande cast.

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Esce anche il western Hostiles, di Scott Cooper, visto a ottobre al festival di Roma. Christian Bale è un capitano dell’esercito statunitense che ce l’ha a morte con gli indiani dopo Little Big Horn. Deve scortare un capo cheyenne, gravemente malato, nella sua terra di origine, dove vuole essere seppellito. Appena partiti, incontrano Rosamund Pike, ancora sotto shock per aver assistito allo sterminio della sua famiglia da parte di un gruppo di cattivissimi comanche. L’ho già scritto e mi ripeto. Christian Bale è un grande attore, non si discute. Ma quando Rosamund Pike interpreta una “femmina folle” (come in Gone girl) non ce n’è per nessuno.

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