19 novembre 2021 13:26

“Se ti fa male un dente, la tua lingua continua ad andare lì. Sei sempre consapevole di una ferita”, mi ricorda Martina Zanin, artista nata nel 1994 a San Daniele del Friuli, che citando il regista Ingmar Bergman racconta il processo creativo e psicologico con cui è arrivata a realizzare il suo ultimo progetto I made them run away.

La storia affonda nel passato dell’artista, cresciuta con la madre e i suoi diversi partner, che non sono mai diventati una figura maschile stabile e di riferimento. Da adulta Zanin si è resa conto della rabbia e del rancore che il suo ambiente familiare aveva sedimentato dentro di lei e ha deciso di affrontare queste emozioni usando la pratica artistica come rimedio catartico.

A Zanin piace usare media differenti: fotografie, testi, video, suoni. Qui crea un intreccio, che si dipana tra passato e presente, tra le vecchie foto della madre strappate per rimuovere un amore finito e quelle scattate tra il 2017 e il 2019 dalla figlia, che cercano di ricreare stati d’animo, associazioni mentali e visive. Nel dialogo tra immagini vecchie e nuove s’inseriscono le pagine del diario della madre, scritti carichi di desiderio e malinconia pensati per quell’uomo che non ha mai avuto.

I made them run away è diventato un libro, pubblicato a ottobre da Skinnerboox. Sfogliandolo colpisce la sequenza di immagini d’archivio e simboliche, nata da un processo creativo nutrito dalla ricerca, dall’immaginazione e dall’istinto. Zanin non lavora seguendo troppe regole, s’immerge in una foto che esiste già e la reinventa come movimento oppure cerca un filo conduttore che non è necessariamente guidato dalla logica. Raccontando la realizzazione degli scatti, prende come esempio la relazione tra due foto nel libro: “La bambina che tocca un pomo d’Adamo è una scena piena di tensione che va a sfogare nell’immagine di un’onda che si infrange su una scalinata. Ne percepisco la sensazione, le emozioni, sento i suoni, distinguo la durezza del pomo d’Adamo e il suono delle onde che sbattono contro la roccia. Non è solo osservare, è penetrare all’interno di un mondo parallelo ed è quello che provo a trasmettere”.

Dopo il libro, il progetto ora è anche in mostra allo Spazio Labò di Bologna, fino al 14 gennaio, con un allestimento a cura di Laura De Marco. Sembrerebbe un lavoro concluso, ma per Zanin non lo è fino in fondo perché i ricordi sono sempre nella nostra testa, cambiano, si trasformano e se decidiamo di non dimenticare, diventano nostri compagni per la vita.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it