La pandemia ha causato un forte aumento della disoccupazione. Negli Stati Uniti nell’aprile 2020 era arrivata al 14 per cento, un tasso che non si registrava dai tempi della grande depressione. Tuttavia i timori di un periodo prolungato di forte disoccupazione non si sono avverati. Secondo gli ultimi dati disponibili, a novembre del 2021 la disoccupazione nei paesi più ricchi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) superava solo di poco quella del periodo precedente alla pandemia. E ora potrebbe perfino essere tornata agli stessi livelli. Il rimbalzo nel mercato del lavoro del mondo ricco è l’ultimo dei fenomeni che stanno costringendo gli economisti a tornare su una domanda di fondamentale importanza: i robot danneggeranno i lavoratori? Una previsione a tinte fosche, secondo cui è in arrivo un’invasione di robot che danneggerà l’occupazione, ha esercitato per decenni una presa enorme sull’immaginazione popolare. Mettere le persone in guardia da un futuro senza lavoro ha paradossalmente dato parecchio lavoro a qualche intellettuale a caccia di un contratto per un libro. Poco prima della pandemia, però, altri studiosi avevano cominciato a mettere in discussione questa prospettiva. In teoria il mondo era nel pieno di una rivoluzione alimentata dall’intelligenza artificiale e dall’apprendimento automatico, ma nel 2019 i tassi di occupazione nelle economie avanzate erano i più alti di sempre. In Giappone e Corea del Sud, due paesi che usano molti robot, la disoccupazione era tra le più basse al mondo.

Molti pensavano che la pandemia avrebbe finalmente dimostrato che i mercanti di sventura avevano ragione. A metà del 2020 in un saggio pubblicato dal National bureau of economic research, negli Stati Uniti, si sosteneva che il covid-19 avrebbe potuto “imprimere un’accelerazione all’automazione dei posti di lavoro”, mentre in un altro si leggeva che la pandemia stava “rafforzando sia la tendenza verso l’automazione sia i suoi effetti”. Uno studio del Fondo monetario internazionale si chiedeva se i posti di lavoro persi durante la pandemia sarebbero “tornati”. Parte del ragionamento era che gli imprenditori avrebbero preferito i robot alle persone, perché non si ammalano. Altri notavano che l’automazione tende ad aumentare nei periodi di recessione.

Dopo due anni di pandemia, però, le prove di una disoccupazione provocata dall’automazione sono deboli, anche se gli investimenti globali nel settore stanno aumentando. Le economie sviluppate sono alle prese con una carenza di manodopera – nei paesi dell’Ocse siamo alla cifra record di trenta milioni di posti di lavoro vacanti – ed è difficile conciliare questo dato con l’idea che le persone non sono più necessarie. Si registra un aumento insolitamente veloce dei salari dei lavoratori non specializzati, posti spesso ritenuti tra i più esposti alla sostituzione da parte dei robot. Negli Stati Uniti ci sono ancora poche prove del fatto che le mansioni più ripetitive, le più semplici da automatizzare, si stiano riducendo.

Un’opinione eretica

Di fronte a tanti dubbi sulla narrazione secondo cui “i robot cancellano i posti di lavoro”, non c’è da stupirsi se sta emergendo una tesi diversa. Philippe Aghion, Céline Antonin, Simon Bunel e Xavier Jaravel, economisti che lavorano in una serie di istituzioni francesi e britanniche, hanno esposto un nuovo punto di vista sui robot, sostenendo che “l’effetto diretto dell’automazione potrebbe essere un aumento, non una diminuzione dell’occupazione nelle aziende”. Questa opinione, per quanto eretica possa suonare, ha una solida base macroeconomica. L’automazione potrebbe aiutare un’azienda a spostarsi verso nuove aree o a concentrarsi su prodotti e servizi che richiedono un impiego maggiore di manodopera.

Un numero crescente di analisi sostiene questa tesi. Daisuke Adachi e i suoi colleghi dell’università di Yale, negli Stati Uniti, hanno studiato il settore manifatturiero giapponese tra il 1978 e il 2017, scoprendo che un nuovo robot ogni mille lavoratori fa crescere l’occupazione nelle aziende del 2,2 per cento. Un altro studio condotto da Joonas Tuhkuri e dai suoi colleghi del Massachusetts institute of technology (Mit) ha analizzato le aziende finlandesi, concludendo che l’uso di tecnologie avanzate ha aumentato le assunzioni. Secondo un lavoro (non ancora pubblicato) di Michael Webb, dell’università di Stanford, e Daniel Chandler, della London school of economics, “nell’industria britannica l’automazione ha favorito la sopravvivenza delle aziende, mentre una forte automazione iniziale è associata all’aumento dell’occupazione”.

È comprensibile che quest’apparente voltafaccia degli economisti possa sembrare irritante. Tuttavia la faccenda è un po’ più complicata, non si può semplicemente dire che si sbagliavano. Innanzitutto, i metodi statistici sono migliorati da quando uscirono i primi saggi sul tema, come quello pubblicato nel 2013 da Carl Benedikt Frey e Michael Osborne, dell’università di Oxford, secondo cui il 47 per cento dell’occupazione statunitense era a rischio a causa dell’automazione. La metodologia di Adachi e dei suoi colleghi è particolarmente intelligente, perché rivede i legami di causa ed effetto: le aziende che assumono personale probabilmente comprano anche robot, ma non è detto che sia vero il contrario. Il loro studio dimostra che le aziende comprano robot quando il prezzo diminuisce. Questo contribuisce a stabilire un nesso tra robot più economici, aumento dell’automazione e aumento dei posti di lavoro. I nuovi studi, tuttavia, non dicono molto sulla qualità dei posti di lavoro o sui salari. Un libro in uscita di David Autor, David Mindell ed Elisabeth Reynolds dell’Mit dimostra che, pur non provocando una diffusa diminuzione dei posti di lavoro, i robot potrebbero creare un ambiente in cui i compensi sono “sbilanciati verso l’alto”. Secondo altri, l’automazione riduce la qualità del lavoro. Aghion e i suoi colleghi aggiungono che anche se l’automazione stimola l’occupazione in una singola azienda o in un settore, l’effetto sul resto dell’economia è meno chiaro. In teoria, per esempio, le aziende che usano i robot potrebbero avere tanto successo da portare al fallimento la concorrenza, riducendo il numero totale di posti di lavoro disponibili.

Questi nodi da sciogliere dimostrano che i ricercatori hanno ancora molto da fare. Una cosa però è già chiara: l’era delle previsioni generiche e pessimiste sull’automazione è davvero finita. ◆ gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1445 di Internazionale, a pagina 102. Compra questo numero | Abbonati