La causa principale d’inquinamento nei Territori palestinesi occupati è il controllo che Israele esercita sulla terra, la sua impresa coloniale. Lo ha detto il premier palestinese Mohammad Shtayyeh nel suo intervento alla conferenza sul clima (Cop26) che si è conclusa a Glasgow il 12 novembre. La presenza di Shtayyeh è stata a malapena notata dai mezzi d’informazione internazionali, per non parlare di quelli israeliani, a dimostrazione, se ce ne fosse ancora bisogno, di quanto sia diventata marginale la questione palestinese nella politica mondiale. Ma non per questo il danno dell’occupazione all’ambiente è minore.

Diversi studi e articoli sulla situazione ambientale nella Striscia di Gaza e in Cis­giordania individuano un chiaro legame con la politica israeliana. Ma è difficile quantificare il contributo totale al riscaldamento climatico delle azioni del governo e dei civili israeliani nei territori conquistati nel 1967. Un rapporto dell’ente che supervisiona e vigila sulle attività del governo denuncia l’incapacità di Israele di frenare le emissioni di gas serra, ma non fa alcun riferimento ai Territori occupati. E non cita neanche le spaventose previsioni fatte dall’Onu nel 2012, secondo cui la Striscia di Gaza sarebbe diventata inabitabile nel 2020 se Israele non avesse modificato sostanzialmente la sua politica nei confronti del territorio palestinese. Sono passati quasi due anni da quella “scadenza” e non è cambiato nulla. L’Onu deve aver sottovalutato l’enorme capacità di resistenza degli abitanti di Gaza.

Gli alberi vengono sradicati, le colture devastate e l’accesso ai terreni agricoli negato

Doppio sistema

Eppure il rapporto dell’ente di controllo fa luce sul contributo dell’occupazione all’inquinamento globale e locale, sottolineando che “in una situazione di conflitto” tra gli interessi del governo e l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra si privilegiano i primi rispetto al secondo. Come dimostrano le scelte politiche presentate e poi realizzate, i governi israeliani – compreso quello attuale – vogliono espandere gli insediamenti, spingere altri israeliani ed ebrei della diaspora a stabilirsi in Cisgiordania, mantenere il controllo totale sul 60 per cento della Cisgiordania (la cosiddetta area C), mantenere la divisione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, separare la popolazione palestinese e quella ebraica, e convincere il mondo che i territori palestinesi isolati e scollegati tra loro siano la “soluzione” al problema israelo-palestinese. Un obiettivo non dichiarato, ma ricavato dai precedenti, è l’indebolimento sistematico dell’economia palestinese. Tutti questi obiettivi hanno un prezzo sotto forma di danni ambientali, che sono in parte il risultato della costruzione superflua e ideologicamente motivata di fabbricati e strade negli spazi verdi e aperti dei palestinesi. Le costruzioni per gli ebrei negli insediamenti hanno bisogno di molto spazio, sia per renderli più piacevoli sia per conquistare quanta più terra palestinese possibile.

Comunità separate

Seguendo la logica che punta a mantenere separate le due comunità, palestinesi e coloni, e a consolidare l’annessione di fatto, Israele sta creando due sistemi stradali distinti. Il criterio predominante nella pianificazione di nuove strade è soddisfare le esigenze dei coloni di oggi e di domani, il che significa costruire più strade e ridurre i tempi di percorrenza tra gli insediamenti e Israele. I veicoli palestinesi sono incoraggiati o costretti a percorrere strade secondarie, parallele “tangenziali” (strade che aggirano città e villaggi). Ai palestinesi sono vietate molte strade che collegano gli insediamenti tra loro e con Israele. E alcune vie percorribili non portano da nessuna parte. In Cisgiordania migliaia di metri quadrati di terreno sono ricoperti di asfalto senza uno scopo civile: sono le “strade di sicurezza”, costruite intorno agli insediamenti, a spese di terreni agricoli o pascoli palestinesi, e le strade asfaltate lungo la contorta barriera di separazione, a uso esclusivo dei veicoli militari. Inoltre gli alberi vengono sradicati, le colture devastate e l’accesso ai terreni agricoli in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza è negato con il pretesto della sicurezza, a causa della violenza dei coloni e per favorire l’espansione degli insediamenti e delle loro infrastrutture.

Anche le restrizioni ai movimenti e i divieti di costruzione aumentano le emissioni di gas serra. Le distanze e i tempi di percorrenza tra le enclave e le sottoenclave palestinesi – cioè dai villaggi alla città principale – si allungano, a causa dei posti di blocco temporanei e permanenti e delle aree in cui i palestinesi non possono entrare, come gli insediamenti. Più tempo al volante significa un maggior consumo di carburante e più emissioni. E i veicoli che vanno a passo d’uomo inquinano ancora di più. Uno studio del 2018 dell’istituto palestinese di ricerca Arij ha rivelato che ogni anno si sprecano 80 milioni di litri di carburante in Cisgiordania a causa degli ingorghi ai posti di blocco, della chiusura di alcune zone alle auto palestinesi e delle deviazioni obbligate sulle “tangenziali”. Questo si traduce in 196mila tonnellate di CO2 in più ogni anno e nella perdita di 60 milioni di ore lavorative, per un costo di 270 milioni di dollari.

Israele controlla tutte le risorse idriche del paese, ma non considera la Striscia di Gaza come un suo territorio naturale. Se così fosse dovrebbe condividere una quota delle risorse idriche, come fa con le comunità ebraiche nel deserto. Gaza, quindi, deve arrangiarsi con quel poco di falda acquifera costiera disponibile all’interno dei suoi confini artificiali, insufficiente per i suoi due milioni di abitanti. Dopo essere stata sfruttata al di là delle sue capacità per trent’anni, la falda si è contaminata con infiltrazioni di salinità e scarichi. Circa il 96 per cento della sua acqua è considerato non potabile e dev’essere depurato in appositi stabilimenti. Questa operazione consuma un’enorme quantità di carburante ogni giorno, poi l’acqua depurata viene portata nelle case, producendo ulteriori emissioni. Connettere Gaza al sistema idrico di Israele (che usa grandi quantità d’acqua provenienti dalla Cisgiordania) sarebbe più giusto sia per i palestinesi sia per il clima mondiale.

In Cisgiordania Israele raziona la quantità d’acqua che i palestinesi possono prelevare e usare. La portata nelle condotte è debole e l’acqua non riesce a raggiungere molti quartieri e villaggi palestinesi situati un po’ più in alto. Anche in questo caso la soluzione è dispendiosa in termini di carburante, perché l’acqua è trasportata in autobotti che riforniscono le cisterne sui tetti e i pozzi. Israele si rifiuta anche di permettere a decine di villaggi e comunità dedite alla pastorizia di collegarsi alla rete idrica. Queste comunità palestinesi povere dipendono dall’acqua portata da camion e trattori, per cui pagano almeno cinque volte più del dovuto.

Senza alternative

Anche l’Autorità Nazionale Palestinese (Anp) incoraggia politiche neoliberiste che danneggiano l’ambiente. Ma il suo status di sottomissione e inferiorità rende difficile trovare soluzioni. Per ridurre le emissioni bisognerebbe sviluppare i trasporti pubblici. Ma, anche se l’Anp non fosse al verde, il progetto di una rete ferroviaria tra le città palestinesi è reso impossibile dalla frammentazione del territorio. Potenziare il trasporto pubblico esistente come autobus e minibus implicherebbe sovvenzionare compagnie private e municipali, aumentare i salari degli autisti, moltiplicare le linee e allungare gli orari.

Ridurre gli ingorghi stradali aggiungendo vie d’uscita dalle città è impossibile a causa degli insediamenti, delle regole di pianificazione discriminatorie e della pretesa dell’apparato di sicurezza che il numero di ingressi e uscite dalle città palestinesi sia il più ridotto possibile. Il controllo israeliano sulla terra, sulle risorse idriche e sulla pianificazione in più del 60 per cento della Cisgiordania non permette all’Anp di razionalizzare la distribuzione dell’acqua, deviando il flusso dalle aree fertili per mezzo di condotte, né di allontanare le zone industriali inquinate dalle aree residenziali.

La debolezza finanziaria dell’Anp, l’incapacità di onorare la promessa fatta ai palestinesi che gli accordi di Oslo avrebbero portato alla fine dell’occupazione e la sua corruzione hanno ridotto al minimo la fiducia della popolazione. Ma la fiducia è essenziale quando un governo vuole sensibilizzare i cittadini e proporre soluzioni politiche in qualunque settore: dal controllo delle nascite alla riduzione dell’uso di pesticidi chimici fino alla promozione del trasporto pubblico. Anche la divisione interna tra Hamas e Fatah, generata e acuita dalla strategia israeliana di isolare Gaza, impedisce ai palestinesi di sviluppare e realizzare un pensiero e una pianificazione ambientali a lungo termine. ◆ fdl

Amira Hass è una giornalista israeliana. Vive a Ramallah, in Cisgiordania.

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Questo articolo è uscito sul numero 1437 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati