Ali è alawita. Originario di Masyaf, vive e lavora in Libano da più di dieci anni. Quando l’8 dicembre scorso è caduto il regime di Bashar al Assad, è stato colto dal panico. Non perché si sentisse legato a un clan che non ha mai fatto nulla né per lui né per la grande maggioranza degli alawiti. Ma perché da quando è nato gli è stato detto che i sunniti vogliono ucciderlo. E lui, come il resto della sua comunità, ha paura sia di perdere tutto sia di essere associato all’ex regime. Agli occhi della maggioranza sunnita, gli alawiti hanno partecipato per decenni, soprattutto l’ultimo, alla repressione e ai massacri del regime. Nel migliore dei casi, hanno taciuto. Quindi sono colpevoli.

Da tre mesi Ali è convinto che il sangue scorrerà in Siria “ancora più che durante il regno di Assad”. La sera del 6 marzo è piombato nel mio ufficio, gridando: “È cominciata la guerra civile!”. Forse è un’esagerazione. Ma quello che è successo negli ultimi giorni è molto più di un’ombra sul nuovo potere siriano. Non conosciamo ancora i dettagli. Non sappiamo se alcune potenze straniere – l’Iran, la Turchia, Israele – hanno avuto un ruolo. Non siamo sicuri dell’entità del massacro o di chi l’ha commesso. Non sappiamo esattamente fino a che punto le autorità sono state coinvolte o se sono state sopraffatte dalle loro fazioni più radicali. Ma sappiamo che, dopo un’insurrezione guidata da gruppi armati fedeli ad Assad, sono scoppiati violenti combattimenti e centinaia di civili alawiti sono stati massacrati. Qualunque cosa si pensi di quello che rimane dell’assadismo e dei suoi sostenitori stranieri, questo fatto dovrebbe avere la precedenza su tutto il resto. Se un massacro simile fosse stato commesso sotto il regime di Assad, non avremmo avuto parole abbastanza dure per condannarlo. Non c’è motivo di fare diversamente oggi.

L’odio settario è il veleno più mortale della regione. Nell’ultimo decennio ha raggiunto l’apice in Iraq e in Siria. Gli uni massacrano gli altri. Poi gli altri fanno lo stesso per vendicarsi. La rivoluzione siriana ha raggiunto l’impossibile e l’impensabile a dicembre, conquistando il potere senza spargimento di sangue. Questa è stata la principale eredità e conquista del nuovo potere. E nel giro di pochi giorni è andata in fumo. C’erano tutti gli ingredienti perché la situazione esplodesse. Da un lato, gli alawiti che hanno perso tutto, respinti dall’esercito e dall’amministrazione, e non più in grado di beneficiare degli aiuti statali a causa delle politiche liberali del nuovo governo. Dall’altra, fazioni radicali sunnite composte da giovani che non hanno conosciuto altro che la repressione da quando sono nati. Tra i due, un potere eterogeneo e limitato. E in tutto il paese, armi fuori dal controllo dello stato e di cui nessuno sa cosa fare.

L’unica speranza

Ahmed al Sharaa potrebbe essere caduto in una trappola tesa dalle forze dell’ex regime, che sanno meglio di chiunque altro come alimentare le paure tra gli alawiti. Il presidente siriano ad interim ha dovuto affrontare un tentativo di colpo di stato che sembra essere stato meticolosamente preparato, forse con l’aiuto dell’Iran. Ha invitato le sue truppe alla moderazione, ha promesso che chiunque “faccia del male a civili innocenti sarà severamente punito” e ha annunciato la creazione di una commissione nazionale indipendente per indagare su quello che è successo sulla costa siriana. Al suo posto, Assad avrebbe chiesto l’uccisione di tutti i “terroristi” – termine usato per indicare chi si rifiuta di tacere – e avrebbe negato tutti i crimini commessi dai suoi uomini. Ahmed al Sharaa non è il nuovo Bashar al Assad. Ma era sua responsabilità fare tutto il possibile per garantire che non fosse più massacrato nessun civile siriano. Perché la rivoluzione siriana porta con sé una speranza che va ben oltre se stessa.

È facile scrivere queste parole quando non si è a capo di un paese in rovina e diviso, appena uscito da tredici anni di guerra e da cinquant’anni di sanguinosa dittatura, e afflitto dalle ingerenze straniere. Il presidente siriano si trova in una situazione insostenibile. Le casse dello stato sono vuote, le sanzioni non sono state revocate e nessun aiuto promesso è stato ancora fornito. Il paese è sull’orlo della divisione e dell’implosione. Le minoranze curde, druse e alawite, per motivi e in gradi diversi, sfidano e temono l’autorità di Damasco. Israele minaccia di invadere il sud con il pretesto di proteggere i drusi. L’Iran prepara la sua vendetta. La Turchia pensa di trovarsi in un territorio conquistato.

Ultime notizie

6 marzo 2025 Centinaia di miliziani fedeli all’ex presidente Bashar al Assad attaccano le forze di sicurezza siriane a Jable, nella regione di Latakia, roccaforte della minoranza alawita. Il governo siriano manda rinforzi e ci sono combattimenti e uccisioni indiscriminate.

9 marzo Il presidente ad interim Ahmed al Sharaa si impegna a “perseguire i responsabili delle uccisioni di civili” e chiede il “mantenimento dell’unità nazionale e della pace civile”.

10 marzo Il ministero della difesa annuncia la fine dell’operazione militare nell’ovest del paese. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani i morti sono più di 1.500. Afp


Mentre la situazione interna basterebbe da sola a far impallidire anche i dirigenti più competenti, la Siria è diventata il teatro di un braccio di ferro geopolitico tra i due nuovi imperi della regione. E il mondo guarda altrove. L’Europa all’Ucraina, gli arabi a Gaza.

Senza aiuto Al Sharaa non ce la farà. A tre mesi dalla presa di potere, l’ex jihadista rimane un enigma tanto affascinante quanto preoccupante. Chi ha avuto modo di incontrarlo lo descrive come un uomo molto intelligente, colto e sicuro di sé. Un uomo con un percorso tortuoso, per il quale la sete di potere, molto più della lealtà, è la parola d’ordine. Né democratico né laico, vuole trasformare la Siria in un regno autoritario-islamista. Qualunque cosa si pensi di lui e del suo progetto, oggi incarna l’unica speranza che il paese ha di non ricadere nella guerra civile. È il solo in grado di fermare gli insorti e consegnare i criminali alla giustizia. A rischio di perdere il potere e di lasciarci la pelle. O, se non vorrà farlo, di seppellire lui stesso la rivoluzione siriana. ◆ adg

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Questo articolo è uscito sul numero 1605 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati