Da quando è diventato un genere più che adulto – da qualche parte è sclerotizzato, altrove si avvale di trasfusioni di sangue, in certi casi attraversa un’inaspettata adolescenza – il rap ha vissuto una trasformazione del concetto di “mistero” che è diventato un effetto collaterale del marketing: le copertine al buio, i rituali del lancio, il conto alla rovescia per le uscite, la costruzione algoritmica di un’aspettativa, i passaparola che in realtà vengono trasmessi con i megafoni, lo svelamento di un album che somiglia più all’apertura notturna di un pop-up di scarpe da ginnastica. È un mistero ludico, ha una sua sacralità, e molti artisti sanno giocarci a proprio vantaggio.

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Per un genere nato nell’ottica di una rivalsa sociale non solo personale ma anche collettiva, tenere il punteggio personale può essere anche un limite, o un tradimento, ma le canzoni rap che non vogliono dire niente o lanciare messaggi sono state anche una conquista seducente del nostro tempo. Quindi, più che sul concetto di guadagno che ha animato il rap anni duemila prima di tornare a un atomizzato nichilismo (di postura o meno), è più interessante stare sul concetto di mistero.

Se c’è un artista che riesce a preservare questa dimensione del rap, con il suo cuore perennemente in rivolta ma senza prezzo, è sempre Kaos One. Con Chiodi, un altro disco che s’immagina sempre come l’ultimo, Kaos non dimentica che la tragedia ha una sua dimensione inaccessibile ma al tempo stesso comunicabile. E infatti, a differenza di molti rapper italiani, non scrive soliloqui ma monologhi. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1469 di Internazionale, a pagina 100. Compra questo numero | Abbonati