Millicent Barty ha trascorso anni cercando di decolonizzare il suo paese, registrando storie orali in tutte le isole Salomone e promuovendo la cultura melanesiana. Voleva dare importanza al sapere locale, non solo a quello che arrivava dall’impero britannico.

Il 9 settembre però, quando le hanno chiesto della morte della regina Elisabetta II, Barty ha sospirato aggrottando le sopracciglia. I suoi occhi sembravano trattenere una serie di emozioni complicate mentre ricordava l’incontro con la regina nel 2018, durante un programma per i giovani leader del Commonwealth.

“Volevo bene a sua maestà”, ha detto bevendo un caffè sull’isola di Guadalcanal, nell’arcipelago delle Salomone in mezzo al Pacifico, a quasi 15mila chilometri da Londra. Riconciliare una regina in apparenza benevola con l’eredità spesso crudele dell’impero britannico è il dilemma al cuore dell’influenza postcoloniale del Regno Unito. La famiglia reale britannica ha regnato su più territori e popoli di qualsiasi altra monarchia della storia. Nei paesi che non si sono mai davvero staccati dalla corona la morte della regina ha accelerato la spinta a interrogare più in profondità il passato e a liberarsi dall’impronta del colonialismo.

“La monarchia muore con la regina?”, si chiede Michele Lemonius, che è cresciuta in Giamaica e ha da poco finito un dottorato in Canada sulla violenza giovanile nelle ex colonie di schiavi. “È il momento di parlarne”. Molte ex colonie britanniche sono ancora legate tra loro nel Commonwealth, un’associazione volontaria di 56 stati. In maggioranza hanno storie comuni e sistemi giudiziari e politici simili. L’organizzazione promuove scambi in settori come lo sport, la cultura e l’istruzione. Ai paesi più piccoli ed entrati nel gruppo più di recente, come alcune nazioni africane che non erano colonie britanniche, il Commonwealth offre prestigio e non solo: anche se non ci sono accordi commerciali ufficiali, gli scambi tra i paesi che ne fanno parte sono superiori alla media.

Giudizio separato

Molti paesi del Commonwealth sono repubbliche indipendenti, senza legami formali con la famiglia reale britannica. Ma quattordici sono monarchie costituzionali che hanno mantenuto la sovrana britannica come loro capo di stato, un ruolo per lo più simbolico. In questi paesi la monarchia è rappresentata da un governatore generale che ha doveri cerimoniali, come presiedere al giuramento dei parlamentari. E anche se il principe Carlo è stato proclamato nuovo re di tutti questi “regni e territori”, in molti la morte della regina è stata accolta con richieste più esplicite di una piena indipendenza. Il 10 settembre il primo ministro di Antigua e Barbuda ha detto che, entro tre anni, convocherà un referendum per far diventare il paese una repubblica. In Australia, nelle Bahamas, in Belize, in Canada e in Giamaica sono ricominciati i dibattiti sui legami con un regno lontano. La gente si chiede: perché giuriamo fedeltà a un sovrano che è a Londra?

Per gli storici della colonizzazione è una riflessione ormai matura da tempo, dopo i settant’anni di regno di una regina minuta di statura ma imperiosa nel suo ricorso al rispetto del dovere e ai sorrisi per ammorbidire l’immagine di un impero che spesso si è macchiato di atti di violenza.

“Finché c’è stata, la regina ha permesso che tutte le tessere del mosaico restassero unite”, afferma Mark McKenna, storico dell’università di Sydney. “Ma non sono sicuro che tutto questo reggerà ancora per molto”. All’età di 73 anni, suo figlio, re Carlo III, ha poche possibilità di eguagliare il potere che aveva la regina di plasmare l’opinione pubblica globale.

Il regno di Elisabetta cominciò all’estero con la morte del padre, nel 1952. Aveva 25 anni, era in Kenya per un viaggio durante cui s’impegnò a facilitare la transizione del paese verso l’indipendenza. In un discorso tenuto il giorno di Natale del 1953 ad Auckland, in Nuova Zelanda, disse che la sua idea di Commonwealth “non somigliava agli imperi del passato. È un concetto nuovo, edificato sulle qualità più elevate dello spirito dell’essere umano: amicizia, lealtà e desiderio di libertà e pace”.

La regina ha visitato quasi 120 paesi. Ha incontrato più capi di stato di qualsiasi papa e ha viaggiato spesso per il mondo quando, dopo la seconda guerra mondiale, una colonia dopo l’altra diceva addio al vecchio Regno Unito. India e Pakistan diventarono indipendenti nel 1947, la Nigeria nel 1960, lo Sri Lanka diventò una repubblica nel 1972. L’ultimo paese ad aver tagliato ogni legame con la corona è stato Barbados, nel 2021.

“La corona britannica ha mostrato una grande capacità di evolversi, trasformandosi da monarchia coloniale a monarchia postcoloniale, e la regina ha affrontato splendidamente questa nuova creazione”, afferma Robert Aldrich, storico dell’università di Sydney.

A differenza di molti personaggi politici inglesi, accettò rapidamente l’indipendenza delle ex colonie. Dopo che le isole Salomone ottennero l’indipendenza negli anni settanta, proclamò cavaliere il primo ministro del paese Peter Kenilorea. All’epoca suo figlio, Peter Kenilorea Jr., oggi parlamentare, aveva dieci anni. “Ero nervoso e il suo sorriso mi mise a mio agio”, dice.

A mano a mano che la regina invecchiava, è diventato più difficile separare la monarchia dal razzismo e dalle azioni dell’impero

Perfino in alcuni paesi con profonde ferite coloniali sembrava che la regina potesse avere il beneficio di essere giudicata separatamente dal dominio a volte spietato del Regno Unito. Alla sovrana non fu attribuita quasi nessuna colpa negli anni cinquanta, quando le autorità britanniche in Kenya torturarono persone sospettate di appartenere alla ribellione dei mau mau, o nel 1955, quando le forze britanniche che contrastavano i disordini anticoloniali usarono tattiche simili contro i civili a Cipro, e neanche nel 1962 ad Aden, nello Yemen. “Era vista unicamente come una sovrana donna”, afferma la storica Sucheta Mahajan, che vive in India, dove la regina è stata accolta nonostante decenni di dominio e sfruttamento britannico.

E dopo decenni la regina Elisabetta era ancora considerata da molti un simbolo unificante di valori solenni. Anche nei paesi in cui è cresciuta la spinta repubblicana le persone si sono commosse per la sua morte.

“Non era solo una sovrana costituzionale per il paese in cui sono nato”, ha detto Sarah Kirby, 53 anni, che si occupa di pubbliche relazioni nelle Bahamas. “Per me rappresentava quello che una donna può fare, ha dimostrato come servire il suo ­paese con onore”.

Tuttavia, a mano a mano che la regina invecchiava e si mostrava meno, e mentre il mondo affrontava una riflessione più profonda sui peccati della colonizzazione, è diventato più difficile separare la monarchia dal razzismo e dalle azioni dell’impero. Nelle ex colonie di tutto il mondo sono cresciute le richieste di un pieno riconoscimento delle sofferenze e dei saccheggi che hanno contribuito all’enorme ricchezza della famiglia reale.

Alla cerimonia con cui a novembre del 2021 è stato decretato che la regina non era più capo dello stato delle Barbados, il principe Carlo ha ammesso “le terrificanti atrocità della schiavitù nell’ex colonia britannica”. Lo scorso marzo il principe William e sua moglie Kate sono stati accolti in Giamaica da manifestazioni di protesta che chiedevano scuse e risarcimenti. Ad agosto il presidente ghaneano Nana Akufo-Addo (il paese ha conquistato l’indipendenza dal Regno Unito nel 1957) ha chiesto ai paesi europei di pagare risarcimenti all’Africa per la tratta degli schiavi che ha ostacolato il “progresso economico, culturale e psicologico del continente”.

Ora che la regina è morta, perfino i suoi gioielli reali sono sottoposti a un giudizio più severo. Su Twitter le persone hanno chiesto la restituzione al Sudafrica della Grande stella d’Africa, il diamante non tagliato più grande del mondo, incastonato nello scettro della sovrana. In India i giornali si sono interrogati sul futuro del diamante Kohinoor, che fa parte della corona della regina e si dice sia stato portato via all’India.

Da sapere
L’India indifferente

◆ “Poche ore prima che si diffondesse la notizia della morte della regina Elisabetta II, il premier indiano Narendra Modi ha pronunciato un discorso accalorato per esortare l’India a liberarsi dei suoi vincoli coloniali”, scrive The Diplomat. L’occasione era una cerimonia per rinominare un viale di New Delhi intitolato a re Giorgio V. “Il discorso di Modi dimostra chiaramente che il paese, un tempo la più grande delle colonie britanniche sottomessa per due secoli al dominio imperiale, è andato avanti”, continua la rivista. “La morte della regina ha suscitato in alcuni la simpatia per una figura profondamente rispettata e in altri ha fatto riaffiorare il ricordo di una storia sanguinosa. Ma dalla maggior parte delle persone comuni è stata accolta con un’indifferente alzata di spalle”.


Dedizione e dovere

Eppure il tentativo di decolonizzare è di per sé una fatica enorme. La regina è sulle banconote di vari paesi e il suo nome si trova negli ospedali e nelle strade. Generazioni di ragazzi negli scout hanno giurato fedeltà alla regina e i sistemi educativi di molti paesi danno ancora priorità al modello coloniale britannico.

“Postcoloniale non vuol dire decolonizzato”, sottolinea Lemonius, che cura alcuni progetti sociali in Giamaica. “L’occhio guarda ancora alla monarchia, al padrone. Quando distogli lo sguardo da quel punto per un tempo abbastanza lungo, puoi cominciare a guardarti intorno e procedere verso la ricostruzione”.

Per alcuni paesi del Commonwealth è difficile prendersela con la monarchia. Solo una piccola maggioranza di australiani vorrebbe trasformare in repubblica il proprio paese, e in un sondaggio fatto nel 2021 in Nuova Zelanda solo un terzo degli intervistati ha espresso questa preferenza.

“Non è una parte importante della nostra vita”, afferma Jock Phillips, storico neozelandese.

Tuttavia la successione reale rappresenta una svolta, non solo per il nuovo re, Carlo III.

Secondo Barty, che ha 31 anni e ha studiato nel Regno Unito e alla Columbia university, negli Stati Uniti, gli ex regni della sovrana continueranno a cambiare. Modi di pensare occidentali e indigeni, dice, possono completarsi a vicenda: l’albero di kauri piantato da Elisabetta II quando visitò le isole Salomone per la prima volta quasi cinquant’anni fa è ormai cresciuto fino a diventare una torre d’ombra. “Per pensare di decolonizzare il sistema, ho dovuto attraversarlo”, dice. “La chiave è la riconciliazione”. Magari, aggiunge, il processo può cominciare dall’eredità della regina.

“Per me ha rappresentato la dedizione, e credo sia questo che dobbiamo far passare ai giovani”, afferma Barty. “Lei ha rispettato tutti i suoi compiti: ha vissuto una vita dedicata al dovere, fino al giorno in cui è morta”. ◆gim

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Questo articolo è uscito sul numero 1478 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati