Fateci caso. Se uno chiede: raccontami il tuo lavoro, la conversazione si esaurisce in un breve giro di frasi. Faccio l’elettricista, faccio l’ingegnere, faccio il bancario. Sì, ma i dettagli? Niente, si va avanti a stento. E dopo frasi generiche si finisce per parlare di soldi, di vessazioni, perfino di amori e via romanzando, ma del lavoro come si svolge, delle difficoltà, di quando sei bravo e quando sbagli, del gergo che è in uso, del gesto abitudinario, degli strumenti che ogni giorno maneggi, di come funzionano, dei rischi che corri, di come ti sei scavato una nicchia per evitare rogne eccetera, si dice poco o niente. Buona parte della vita se ne va lavorando, ma di quel tempo non facciamo racconto, è tempo perso e l’ultima cosa che ci viene in mente è ritrovarlo. Intanto moltissimi dei lavori che abbiamo fatto o sono già spariti o sono vicini alla sparizione o si sono così modificati che se fossimo richiamati in servizio non sapremmo da dove cominciare. Ben venga dunque ogni tentativo di raccontare i lavori, prima che la stessa idea di lavoro, nel bene e nel male, diventi un reperto. Ho un libro sottomano interessante, s’intitola: Di verità solo l’ombra (Il pensiero scientifico). L’autore, Vittorio Fontana, è un medico geriatra. Racconta tra realtà e fantasia il suo lavoro mentre, non soccorsa né prontamente né pigramente, agonizza la sanità pubblica.

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Questo articolo è uscito sul numero 1531 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati