Ogni scritto di Franz Kafka è in fondo un testo sulla presenza costante nelle nostre vite di altri animali, che siano giudici o fantasmi, a cui presto o tardi dobbiamo rendere conto. Questa tesi attraversa il saggio postumo di Roberto Calasso L’animale della foresta (Adelphi 2023): la grande letteratura, di cui Kafka è un protagonista immenso, è sempre dedicata all’animale che non possiamo essere ma che sentiamo di portarci costantemente dentro, come nella canzone di Franco Battiato L’animale. A questo luogo altro della vita umana, separato dal mondo della quotidianità eppure già presente nei sogni e nelle nostre paure, è dedicata l’ultima fatica di Calasso, che va letta come un manifesto di dialogo con queste presenze rilevanti della nostra vita: gli amici immaginari quando siamo bambini, gli animali guida delle culture sciamaniche, il cane che abbiamo tanto amato o i versi stereotipizzati eppure così importanti. “Bau”, scrive Calasso, “significa al tempo stesso costrizione e tana”. I versi inventati costruiscono nel visibile ciò che resta invisibile: altre voci, lingue straniere che ci attraversano di continuo, e che quando le ascoltiamo mettono a repentaglio la nostra pace e serenità, costruite su millenni di falso antropocentrismo. Il vero processo, dunque, non è il Processo di Kafka, ma la nostra vita quotidiana: arriverà la vecchiaia, e capiremo che quell’altro animale fragile e indifeso di cui parlavano le leggende siamo noi alla fine del viaggio che è la vita umana. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1513 di Internazionale, a pagina 93. Compra questo numero | Abbonati