L’India ha superato la Cina ed è diventata il paese più popoloso al mondo. È un cambiamento epocale. Ma la domanda che si sente spesso negli ultimi tempi – l’India può superare anche economicamente una Cina che invecchia? – non è ben formulata. Bisognerebbe concentrare l’attenzione su una questione fondamentale: il governo indiano ha la capacità di trasformare il paese in una grande potenza economica, scientifica e tecnologica come la Cina? Dopo la rivoluzione culturale di Mao Zedong, rovinosamente antintellettuale, per più di cinquant’anni dirigenti competenti hanno tracciato la traiettoria della Cina verso la modernizzazione. Mao ideò con arroganza alcune soluzioni strampalate per la rapida industrializzazione della Cina, come la produzione di acciaio nei cortili delle case. Ma chi gli è succeduto ha messo un freno ai suoi eccessi ideologici.

Da Deng Xiaoping in poi, la Cina ha sempre saputo sfruttare il suo potenziale intellettuale. Cheng Li, direttore del centro studi John L. Thornton China della Brookings institutions, negli Stati Uniti, in un libro di prossima pubblicazione sostiene che l’attuale presidente Xi Jinping, da molti considerato più autoritario dei suoi predecessori, ha dato forza a una nuova generazione di esperti di tecnologia dell’informazione, ingegneria aerospaziale, reti 5g, robotica e intelligenza artificiale. Molti di loro hanno fatto esperienza lavorando nelle aziende statali cinesi e affrontando sfide globali.

È improbabile che un governo basato sulla personalizzazione del potere come quello di Narendra Modi possa aiutare ad accelerare la modernizzazione del paese

In India si fa fatica a trovare un livello simile di talento ed esperienza tra i leader della politica e dell’economia. L’apparato statale del paese, a differenza di quello cinese, è un retaggio del dominio coloniale britannico. Originariamente destinato a far rispettare la legge e a riscuotere le tasse, oggi è incaricato dei programmi di aiuto e dei piani di sviluppo. Questa burocrazia non è attrezzata come quella cinese per le sfide economiche ed ecologiche di oggi. Il motivo non è certo la mancanza di talento. Le università indiane hanno prodotto quella che è probabilmente la più impressionante classe intellettuale tra i paesi non occidentali. Oggi gli indiani occupano posizioni importanti nelle università e nelle imprese occidentali.

La verità è che la diaspora cinese, benché più radicata, non può uguagliare l’importanza di quella indiana. Tuttavia, sarebbe fuorviante tracciare un quadro delle capacità e del potenziale intellettuale dell’India guardando a Sundar Pichai, amministratore delegato della Alphabet, o a Satya Nadella, amministratore delegato della Microsoft. Queste due figure, casomai, ci ricordano che la maggior parte dei talenti indiani oggi vive all’estero o vuole andarsene.

Gli occasionali ritorni a casa raramente hanno successo. Prendiamo Raghuram Rajan, ex economista capo del Fondo monetario internazionale. Invitato nel 2013 dall’ex primo ministro Manmohan Singh a dirigere la banca centrale indiana, Rajan è tornato negli Stati Uniti nel 2016. Le sue critiche al capitalismo clientelare e all’estremismo ideologico non l’hanno messo in buona luce agli occhi del successore di Singh, l’attuale primo ministro Narendra Modi. Dopo la partenza di Rajan, i funzionari nominati da Modi hanno compromesso il prestigio della banca centrale indiana. Altre istituzioni, dalle autorità di vigilanza dei mercati finanziari alle università, non se la passano meglio, guidate da persone apprezzate più per la fedeltà al primo ministro che per la loro competenza.

È improbabile che un governo basato sulla personalizzazione del potere come quello di Modi possa contribuire ad accelerare la modernizzazione del paese. E questo compito non può essere lasciato alla mano invisibile del mercato. La Cina ha dimostrato che le nazioni in ritardo in questo processo hanno bisogno di una politica a lungo termine e dell’azione coordinata di un’élite nazionale composta da burocrati e tecnocrati, oltre che da politici.

Il problema non è il curriculum personale di Modi. E il suo nazionalismo indù non costituisce di per sé un ostacolo. Ma il primo ministro si è dimostrato spaventosamente incline a prendere decisioni arbitrarie in stile Mao, come dimostra la sua politica di demonetizzazione. Peggio ancora, sembra aver dato la priorità alla sua rivoluzione culturale contro una classe dirigente competente. Dopo nove anni al potere, si presenta ancora come un umile cittadino vittima delle élite. Nel frattempo i suoi sostenitori danno l’assalto a quelli che considerano bastioni del privilegio.

Invece di mettersi al passo con la Cina, l’India sembra replicare il suo passato, quando l’indottrinamento delle masse ha avuto la priorità sulla stabilità sociale, la coesione politica e la crescita economica. Probabilmente il paese più popoloso al mondo avrà bisogno di nuovi dirigenti per poter trarre beneficio dal suo potenziale intellettuale e demografico. ◆ ff

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Questo articolo è uscito sul numero 1510 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati