La Costa Rica è stata sempre considerata la nazione più pacifica dell’America Centrale. Una canzone che si suona in tutte le feste popolari s’intitola “Costa Rica, la Svizzera centroamericana”. Nelle ricerche sulla qualità della vita, l’istruzione, la salute e la fiducia nella democrazia, a cominciare dal sondaggio condotto ogni anno dalla società Latinobarómetro, con sede in Cile, il paese è sempre ai primi posti, accanto all’Uruguay.

Mentre gli stati vicini sono da tempo devastati dalla violenza, una delle particolarità della Costa Rica è che ha abolito le forze armate 75 anni fa. L’economia è stabile, basata sull’esportazione di prodotti agricoli, sull’elettronica e su una forte industria del turismo, grazie alle spiagge e altre bellezze naturali. Eppure il paese centroamericano non è immune al degrado economico, istituzionale e sociale che colpisce la regione. E cominciano a emergere le tendenze autoritarie che hanno colpito il Nicaragua, El Salvador e il Guatemala.

Strategia regionale

La crescita della violenza ha sorpreso e spaventato la popolazione. Già nel 2022 la Costa Rica aveva registrato un picco di omicidi: 666. Nel primo semestre di quest’anno quella cifra è stata superata e gli analisti prevedono che entro la fine di dicembre le vittime saranno novecento. Fino al 2020 erano la metà. L’incremento è dovuto alla penetrazione nel territorio dei cartelli della droga messicani di Sinaloa e Jalisco, oltre che delle maras, le bande criminali salvadoregne, i cui leader in patria sono arrestati e rinchiusi nelle megaprigioni di cui tanto si vanta il presidente salvadoregno Nayib Bukele.

Il quotidiano messicano El Universal ha rivelato che il governo di San José sta seguendo una strategia già adottata nel passato recente dai paesi vicini, cioè quella di negoziare delle tregue e stringere accordi con i gruppi criminali. Questo metodo, molto diffuso nell’area dopo la fine delle guerre civili, è stato sempre fallimentare, perché non affronta i problemi alla radice: l’immenso flusso di droga che attraversa l’America Centrale in direzione degli Stati Uniti.

Oltre al fatto che il narcotraffico si è intensificato con la presenza di cartelli stranieri, sono diventati comuni i crimini per affermare il proprio dominio sul territorio, le estorsioni nei confronti dei commercianti e l’imposizione di un “pedaggio” illegale nelle strade. La calma della Costa Rica è stata stravolta.

Il governo del presidente Rodrigo Chaves, un economista conservatore eletto nel 2022, nega qualsiasi trattativa con i criminali. Tuttavia la magistratura locale ha già chiesto l’avvio di un’inchiesta dopo la denuncia del giornale messicano.

Ad alimentare le critiche verso il governo ci sono anche gli abusi contro i migranti, soprattutto quelli che attraversano il Tapón del Darién, al confine tra Panamá e la Colombia. Una volta entrati nella Costa Rica sono caricati a bordo di autobus diretti a nord, ma molti riescono ugualmente a restare nel paese. Come risultato sono in aumento i sentimenti xenofobi e la polarizzazione politica.

Tutti i paesi della regione affrontano il problema della violenza provocata dalle bande criminali solo sul piano interno, con soluzioni che non varcano mai le frontiere. Ma sbagliano. Oggi in America Latina la criminalità organizzata è molto più integrata dei governi nazionali, e questo le dà più libertà di azione: attraversare le frontiere è diventato facile. Bisogna prendere delle misure comuni sul piano regionale. Neanche la Svizzera centroamericana si sta salvando. ◆as

Sylvia Colombo è una giornalista brasiliana esperta di America Latina.

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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 35. Compra questo numero | Abbonati