20 novembre 2018 10:12

Il processo all’uomo più ricercato del Messico è la cartina di tornasole del fatto che c’è qualcosa che non funziona nelle forze dell’ordine messicane. Il procedimento è cominciato la settimana scorsa a New York, perché ogni volta che le autorità messicane lo hanno imprigionato, Joaquín Guzmán detto El Chapo – accusato di essere il capo del gruppo di narcotrafficanti di Sinaloa – è riuscito a scappare. Dopo la sua terza cattura, nel 2016, il Messico lo ha estradato negli Stati Uniti, ma questo non ha ridotto gli spargimenti di sangue nel paese. Nelle stesse ore in cui Guzmán si presentava alla sbarra, nel suo paese natale il presidente Andrés Manuel López Obrador annunciava un piano per mettere fine, a suo dire, a un decennio di fuorviante guerra alla droga.

Amplificata da canzoni popolari e da serie tv sanguinolente, la reputazione del Chapo fa paura anche a New York: una donna è scoppiata in lacrime dopo aver scoperto di essere stata selezionata per la giuria del processo. I pubblici ministeri accusano Guzmán di aver fatto entrare negli Stati Uniti 150 tonnellate di cocaina, ma i suoi avvocati sostengono che si tratti di un equivoco e che Guzmán non sia mai stato il boss della principale banda di narcotrafficanti del Messico.

El Chapo accusa invece Ismael Zambada, altro componente della banda, di aver pagato milioni di dollari agli ultimi due presidenti messicani, Felipe Calderón ed Enrique Peña Nieto, per dare la caccia ai suoi rivali del cartello di Sinaloa. Entrambi i presidenti hanno negato con forza, ma ormai la maggior parte dei messicani è diventata così cinica rispetto alla corruzione da non fare molta fatica a crederci. Tuttavia le accuse lanciate da Guzmán, che è stato arrestato dopo essersi vantato con l’attore statunitense Sean Penn di essere il più grande trafficante di droga al mondo, potrebbero non essere affidabili.

Senza più capi indiscussi le bande più grandi si sono frammentate, e sono rimasti i luogotenenti dal grilletto facile a farsi la guerra

Molti analisti ritengono che la cattura del Chapo e di altri boss del narcotraffico abbia prodotto un inasprimento della violenza in Messico. Senza più capi indiscussi le bande più grandi si sono frammentate, e sono rimasti i luogotenenti dal grilletto facile a farsi la guerra per l’egemonia. Queste lotte intestine hanno contribuito a portare il tasso di omicidi a livelli record nel 2017. Livelli che sicuramente verrano superati quest’anno.

Così, il 14 novembre López Obrador, che entrerà in carica all’inizio di dicembre, ha annunciato un piano di contrasto all’escalation, con una proposta in otto punti in cui riafferma le promesse fatte in campagna elettorale di mettere fine alla corruzione e alla povertà e di affrontare il consumo di droga come una questione di salute pubblica. La tanto sbandierata “amnistia” per alcuni criminali sembra ridursi in realtà a una riduzione delle pene in cambio di cooperazione con le autorità e di risarcimenti alle vittime. Il piano contiene anche la promessa di eliminare il ricorso alla tortura. Non è chiaro se queste misure ridurranno il numero di omicidi.

La proposta più controversa di López Obrador è la creazione di una guardia nazionale posta sotto il controllo dell’esercito. Questo imporrebbe una modifica della costituzione messicana, che stabilisce che tutte le istituzioni di pubblica sicurezza devono essere soggette a controllo civile, non militare. Il presidente Calderón ricorse all’esercito per combattere i narcotrafficanti nel 2006, e allora López Obrador bollò l’operazione come un fallimento. Oggi sembra invece accettare che i militari possano svolgere funzioni di polizia. “Alla fine il senso della politica è scegliere il male minore”, ha detto durante la presentazione del suo piano.

Quello che manca totalmente dal piano di Obrador sono delle proposte per rafforzare la polizia locale dei vari stati della confederazione messicana, che eseguono la maggior parte delle operazioni anticrimine. Né si trova alcun accenno al modo in cui la futura amministrazione intende proseguire la riforma della giustizia penale avviata dal presidente Peña Nieto. Una maggiore attenzione a questi due aspetti sarebbe utile a rafforzare l’assetto di un paese che persone come Guzmán hanno contribuito a indebolire.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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