26 marzo 2020 16:31

Sopra le cime degli alberi si alza un pennacchio di fumo rosa, che segnala agli elicotteri Black Hawk dove atterrare. Girano in circolo e, uno alla volta, appoggiano le loro ruote anteriori sul fianco della collina. Il terreno è troppo ripido per atterrare come si deve, quindi continuano a far girare le loro pale, fanno scendere i passeggeri e riprendono poi immediatamente quota.

Il governo colombiano sta sradicando cespugli di coca, le cui foglie sono usate per produrre cocaina. È un compito costoso, in termini sia di vite umane sia economici. Dieci colombiani sono stati uccisi nelle operazioni di sradicamento della coca nel 2019, e cinquanta sono stati feriti.

Poliziotti armati fanno la guardia sul fianco della collina, vicino a Tumaco, nella Colombia sudoccidentale, per spaventare i criminali. Anche la polizia antisommossa, dotata di scudi, bastoni e bombolette di gas lacrimogeno, si tiene pronta a intervenire. Il suo compito consiste nel tenere a bada gli inferociti coltivatori di coca, che protestano per la distruzione del loro raccolto. Indossano guanti antitaglio, qualora un agricoltore decidesse di esprimere il suo stato d’animo con un machete.

Produzione in aumento
I cani annusano il campo alla ricerca di mine antiuomo, che a volte i criminali sotterrano per rendere più rischiose le operazioni di sradicamento. Fortunatamente, non ne trovano nessuna. Infine gli uomini che lavorano in coppia sradicano i cespugli di coca con una pala e una fune con due impugnature. Sono agricoltori arrivati qui da altre parti della Colombia, e quindi non possono essere identificati dalle bande criminali. Sono pagati bene, per compensare i rischi che corrono e le lunghe assenze da casa.

L’amministrazione del presidente Iván Duque sta cercando di spazzare via la coca, come gli Stati Uniti insistono che debba fare. Nel 2019 ne ha distrutti centomila ettari: il doppio di quanto era riuscita a fare la precedente amministrazione nel 2017. Tuttavia i cocaleros ne hanno ripiantato una quantità leggermente maggiore. Nel 2019 la coca è stata coltivata in Colombia su un’area di 212mila ettari, il 2 per cento in più rispetto all’anno prima, secondo le stime diffuse dalla Casa Bianca il 5 marzo. E i nuovi cespugli hanno avuto una resa maggiore di quelli che avevano sostituito. La produzione potenziale di cocaina pura è cresciuta dell’8 per cento, toccando le 951 tonnellate.

Circa due milioni di statunitensi hanno assunto cocaina nel 2018. Nel 2011 erano stati 1,4 milioni

Sia la Casa Bianca sia l’amministrazione Duque stanno cercando d’imprimere una svolta positiva a questi terribili numeri. Il numero di campi di coca si è stabilizzato, sostengono, dopo essere nettamente cresciuto nel decennio precedente.

Ma fintanto che ci sarà chi vuole sniffare cocaina, sarà difficile impedire la coltivazione di coca. La domanda è forte: circa due milioni di statunitensi hanno assunto questa droga nel 2018, rispetto a 1,4 milioni del 2011, secondo un’indagine nazionale sulla salute e l’uso di droghe. La Colombia produce forse il 70 per cento della cocaina mondiale. Se, in qualche modo, lo sradicamento riducesse significativamente le forniture, il prezzo salirebbe, incentivando gli agricoltori a produrre più coca. E come mostra chiaramente un giro in elicottero sopra la Colombia sudoccidentale, c’è moltissimo spazio dove coltivarla. La foresta si estende fino all’orizzonte in tutte le direzioni, punteggiata solo da alcuni spazi vuoti fumanti, laddove la vegetazione è stata squarciata e bruciata per fare posto ai cespugli di coca.

Nei parchi e nelle riserve indigene
La Colombia è grande il doppio della Francia. I gruppi criminali incoraggiano i coltivatori di coca a sconfinare nei parchi naturali, che costituiscono l’11 per cento del territorio colombiano. Molte riserve indigene (il 32 per cento del territorio colombiano) sono piene di coca e la polizia può entrarci solo con l’accordo dei leader indigeni. Nelle aree prive di strade in buone condizioni, gli agricoltori faticano a portare raccolti diversi, come le papaye, ai mercati. Le foglie di coca, invece, sono leggere: e gli acquirenti bussano direttamente alla porta dei produttori.

Poiché gli agricoltori raramente possiedono la terra che lavorano, non sono scoraggiati dalle minacce di confisca. Non sorprende che il predecessore di Duque, Juan Manuel Santos, abbia paragonato la guerra alla droga al pedalare su una “bicicletta immobile”.

Piantagioni di coca a Tumaco, nella Colombia sudoccidentale, 26 febbraio 2020. (Luisa Gonzalez, Reuters/Contrasto)

Eppure Donald Trump spinge la Colombia a pedalare ancora più forte. Esige che ricominci a spargere erbicida sui campi di coca. La pratica era stata interrotta nel 2015 dopo che l’Organizzazione mondiale della sanità aveva dichiarato che c’era il rischio che provocasse il cancro. Oggi si continua a spruzzare a mano: uomini dotati di tute anticontaminazione prendono di mira con cura le singole piante. Trump vuole riprendere a riversare nuvole di glifosato su ampie aree. “Sarà necessario spruzzare”, ha detto a Duque il 3 marzo. “Se non lo farete, non vi libererete dei campi di coca”.

La Colombia potrebbe essere costretta a seguire queste direttive. L’amministrazione Trump ha in passato minacciato di revocare al paese lo statuto ufficiale di alleato nella guerra alla droga, il che potrebbe generare sanzioni e il ritiro di buona parte degli aiuti statunitensi. “Lo sradicamento forzato è un modo di calmare il governo degli Stati Uniti”, scrive Felbab-Brown del centro studi Brookings institution.

Dal 2000 gli Stati Uniti hanno inviato alla Colombia più di 11 miliardi di dollari per combattere la droga e le rivolte interne. Per il periodo 2019-2020 il congresso ha approvato 418 milioni di dollari di aiuti per continuare questa guerra, ma anche per promuovere la pace con gli ex ribelli e per lo sviluppo rurale. Nel 2016 le Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc), il più nutrito dei gruppi ribelli, ha firmato un accordo di pace e ha deposto le armi. Questo ha creato un vuoto in altre parti del paese, che è stato riempito da altri gruppi di narcotrafficanti.

In aree remote dove lo stato è più o meno assente, decine di leader locali vengono assassinati. Lo sradicamento forzato intensivo di coca rende la situazione peggiore. Alimenta l’ostilità dei colombiani che vivono nelle aree rurali nei confronti dello stato, secondo Felbab-Brown, e rende quindi più difficile la pacificazione delle aree dove si coltiva la coca. Spesso lo stato distrugge i mezzi di sostentamento degli agricoltori, offrendo in seguito un’alternativa, come una strada che permetta loro di trasportare le papaye al mercato, che si concretizzerà in futuro. Una cosa poco allettante per i contadini che vivono alla giornata.

La crisi dei profughi venezuelani
Nel frattempo, all’altra estremità della Colombia, è in corso un’emergenza sottovalutata da chi non vive qui. Ogni giorno arrivano nel paese migliaia di profughi venezuelani. Il 13 marzo Duque ha annunciato che le frontiere sarebbero state temporaneamente chiuse a causa del Covid-19. Ma è improbabile che la decisione blocchi del tutto l’afflusso di persone: il confine è lungo oltre duemila chilometri ed è impossibile sorvegliarlo per intero.

I profughi che hanno da poco varcato il confine sono in condizioni difficili. “Un gruppo di loro è arrivato e ha preso alcune padelle sporche. Credevo che le avrebbero pulite, ma hanno cominciato a leccarle. È lì che ho capito quanto fossero affamati”, racconta padre Jose David Caña Pérez, che gestisce una mensa dei poveri cattolica nella città di frontiera di Villa del Rosario.

Venezuelani in fila per attraversare il confine a Cúcuta, Colombia, il 12 marzo 2020. (Carlos Eduardo Ramirez, Reuters/Contrasto)

L’economia venezuelana si è ridotta di due terzi tra il 2013 e il 2019, perlopiù a causa dell’inettitudine della dittatura di Nicolás Maduro. La percentuale di venezuelani in stato di estrema povertà è salita dal 10 per cento del 2014 a un incredibile 85 per cento nel 2018. “Dovevo scegliere se comprare scarpe per i miei figli o cibo”, racconta Anais Parra, che lavorava in un forno in Venezuela. Oggi siede alla mensa di padre Caña, osservando i suoi figli che divorano maiale, fagioli e banane verdi. In Colombia, vendendo spuntini per strada, guadagna in un giorno quanto guadagnava in un mese in Venezuela.

La Colombia ha assorbito 1,8 dei 4,5 milioni di venezuelani che hanno lasciato il loro paese. Il numero di stranieri che si trovano nel suo territorio si è moltiplicato per 14 dal 2013. Il paese ha accolto i nuovi arrivati, curandone le malattie, istruendone i figli e permettendo loro di lavorare. Fino a questa settimana migliaia di bambini che vivevano in Venezuela, vicino al confine, facevano i pendolari ogni giorno per andare a scuola in Colombia. Dal lato colombiano lo stato approntava per loro degli autobus. Dal lato venezuelano il loro stesso governo li faceva camminare.

È probabile che la pressione al confine s’intensificherà. Il prezzo del petrolio, l’unica significativa esportazione del Venezuela, a parte le persone, è crollato. Lo scorso anno Perù ed Ecuador, due dei vicini della Colombia che in passato avevano accolto molti profughi, hanno inasprito le regole per ottenere un visto. Per lungo tempo la Colombia ha coraggiosamente tenuto aperte le sue frontiere. Ora resta da capire se le riaprirà ufficialmente quando scomparirà la minaccia del nuovo coronavirus.

Un dovere storico
Il resto del mondo sta aiutando, ma non molto. Secondo le stime del Fondo monetario internazionale (Fmi) le spese della Colombia per far fronte in maniera umana a questo afflusso sarebbero di circa 1,5 miliardi di dollari all’anno, ovvero lo 0,5 per cento del pil. I donatori forniscono un ottavo di questa cifra. La Colombia sta facendo quello che può, ma arranca. Molti profughi dormono su pezzi di cartone sotto gli alberi. Le scuole faticano ad assorbire gli alunni supplementari.

Per gli ospedali la situazione è anche peggiore. È stato proprio il timore del collasso del servizio sanitario colombiano a determinare la chiusura del confine. I venezuelani non possono ricevere cure per il Covid-19 nel loro paese, ed è quindi probabile che cerchino di ottenerle in Colombia. In realtà molti di loro in Venezuela non riescono neppure a procurarsi del sapone.

I colombiani sentono di avere un dovere storico: molti di loro andarono a lavorare in Venezuela ai tempi in cui questo paese era prospero e la Colombia no. I venezuelani hanno una cultura simile e parlano la stessa lingua, e riescono quindi ad assimilarsi con relativa facilità. Dal momento che i profughi lavorano, finiranno per contribuire all’economia colombiana, sostiene il ministro delle finanze Alberto Carrasquilla.

“L’immigrazione è un vantaggio netto, a medio termine”, dice Carrasquilla. Ma, sul breve periodo, il tappetino di benvenuto si è già consumato. Un anno fa la maggior parte dei colombiani approvava la politica del governo di offrire un rifugio ai venezuelani, secondo un sondaggio Gallup. Oggi la maggior parte non lo è più. Molte persone vicino al confine “si sentono minacciate. Credono che non ci sia alcun controllo su chi sta arrivando ”, spiegava la giornalista Estefania Colmenares, poco prima che il confine chiudesse.

La Colombia non ha creato nessuna di queste crisi. Il commercio di droga è alimentato dalla domanda globale. L’esodo venezuelano è provocato da una dittatura corrotta, brutale e incompetente. Eppure la Colombia deve oggi gestire le conseguenze di entrambe: ampie porzioni di territorio ingovernabile in una parte del paese, servizi pubblici sovraccarichi in un’altra. Ha bisogno del giusto tipo di aiuti: meno pressioni da chi vuole costringerla a combattere una guerra alla droga impossibile da vincere, e più denaro per far fronte a una crisi dei profughi nel bel mezzo di una pandemia.

(Traduzione di Federico Ferrone)

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Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale britannico The Economist.

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