09 aprile 2020 11:17

Il tempismo, insiste William Barr, il ministro della giustizia degli Stati Uniti, è stato ottimo. Nel bel mezzo della pandemia del nuovo coronavirus e il conseguente collasso del prezzo del petrolio, il 26 marzo il dipartimento di giustizia di Washington ha emanato la decisione di incriminare Nicolás Maduro, il presidente venezuelano, e i suoi più stretti collaboratori con l’accusa di traffico di droga.

Così, ha dichiarato Barr, non sarà più semplicemente un regime corrotto e incompetente. Adesso è etichettato formalmente con un regime criminale, una gang di trafficanti di droga travestiti da governo. Il dipartimento di stato ha offerto una ricompensa per chiunque riveli informazioni che portino all’arresto dei leader sotto accusa: 15 milioni di dollari per Maduro, dieci milioni per Diosdado Cabello, il personaggio a capo dell’assemblea costituente che sostiene il governo.

L’amministrazione Trump sembra sperare che queste incriminazioni formali aiuteranno a rimuovere un governo che è sotto sanzioni fin dall’inizio del 2019, ma etichettare Maduro come un criminale non fa altro che renderlo meno propenso a cedere spontaneamente il potere. Il 31 marzo il governo statunitense ha lievemente corretto il tiro, suggerendo una “cornice di transizione democratica” che comprenda anche un qualche ruolo per l’attuale leader.

Virus e crisi decennale
Il Venezuela si trova in una situazione terribile. Sotto il governo di Hugo Chávez, diventato presidente nel 1999, gli altissimi prezzi del petrolio tenevano nascosti i costi delle sue tremende politiche economiche; ma a partire dal 2013, quando Maduro è salito al potere, l’economia si è andata impoverendo di ulteriori due terzi e un settimo della popolazione, intorno ai 28 milioni di persone, è emigrato.

Il covid-19 renderà la situazione ancor peggiore. La chiusura generale imposta dal governo lo scorso 17 marzo si sommerà agli effetti del crollo dei prezzi del petrolio al livello globale. Le rimesse inviate dai venezuelani emigrati stanno via via diminuendo. Le esportazioni d’oro e addirittura di droga sono in una fase di stagnazione. Luis Oliveros, un economista che vive a Caracas, ha previsto una diminuzione del volume dell’economia del paese del 15 per cento nel 2020, il doppio della contrazione che aveva previsto prima dell’epidemia del covid-19.

La metà dei 306 ospedali pubblici venezuelani non ha mascherine

Il Venezuela ha inoltre un limitato margine di manovra rispetto agli altri paesi dell’America Latina per chiedere prestiti che possano alleviare gli effetti di questa crisi, dato che è già molto indietro con il pagamento dei propri debiti. Lo scorso 15 marzo il presidente Maduro si è appellato al Fondo monetario internazionale (Fmi), chiedendo cinque miliardi di dollari di aiuti. Il fondo ha risposto con un secco rifiuto perché alcuni paesi membri non riconoscono la legittimità del suo governo.

A oggi in Venezuela ci sono stati 144 casi confermati di covid-19. La recessione economica e lo status di governo reietto hanno spinto molte compagnie aeree a diminuire il numero di voli verso il paese. Questo ha fatto guadagnare al Venezuela un po’ di tempo prima dell’esplosione della pandemia, ma senza l’esecuzione di test e senza tracciamento dei contatti, la malattia si diffonderà. Il sistema sanitario è allo stremo. Il Global health security index, l’indice globale di sicurezza sanitaria dell’Oms sviluppato dalla Economist intelligence unit, vede il paese al 176º posto su 195 nazioni prese in considerazione riguardo alla preparazione a fronteggiare un’epidemia. La metà dei suoi 306 ospedali pubblici non ha mascherine, stando a quanto riferisce l’organizzazione non governativa Médicos por la salud. “Abbiamo acqua corrente solo per metà giornata”, dichiara un dottore del principale ospedale pubblico della città di San Felipe, la capitale dello stato di Yaracuy. “Le attrezzature sanitarie promesse per la protezione personale importate dalla Cina non sono mai arrivate”, prosegue.

L’ospedale statale di Algodonales, annoverato tra i migliori della capitale, è senza ambulanze, macchinari per i raggi x o un obitorio in funzione e metà dei giorni della settimana non ha nemmeno acqua né elettricità. Il 30 marzo vi erano già ricoverati due pazienti affetti da covid-19.

Tentativi di dialogo
Di fronte all’imminente disastro il governo e l’opposizione guidata da Guaidó, il capo dell’assemblea nazionale, hanno cominciato a dialogare. Il 25 marzo tre sindaci dell’opposizione sono apparsi insieme a Hector Rodríguez, sostenitore del governo e governatore dello stato del Miranda, che comprende alcune parti di Caracas, durante un evento per promuovere misure concordate per la sanità pubblica. Henrique Capriles, che ha sfidato Maduro alle elezioni nel 2013, ha richiamato opposizione e governo a guardare in faccia i fatti: il presidente Maduro controlla il paese, mentre Guaidó, riconosciuto dagli Stati Uniti e da una dozzina di altre democrazie come presidente ad interim del Venezuela, ha il supporto internazionale.

“Questa pandemia deve servire a creare l’opportunità per raggiungere un accordo” ha dichiarato Maduro, che già più volte aveva detto di essere aperto al dialogo con l’opposizione, nonostante i suoi continui tentativi di reprimerla, e che ha rinnovato l’offerta lo scorso 25 marzo. Se l’opposizione non volesse riconoscerlo come presidente, parteciperà semplicemente come Nicolás Maduro. Si è parlato anche di formare un governo di unità nazionale per affrontare il problema della pandemia.

In alcuni casi le imputazioni si basano su testimonianze di persone che hanno un chiaro interesse a favorire l’accusa

Il ministro Barr potrebbe aver agito come accelerante della situazione. Stando alle accuse degli Stati Uniti, verso la fine degli anni novanta Maduro, Cabello, Hugo Carvajal, ex direttore dei servizi segreti militari, e Clíver Antonio Alcalá, allora ufficiale delle forze armate, avrebbero creato un’organizzazione per il controllo del narcotraffico chiamata il Cartello dei soli, nome ripreso da un’insegna delle uniformi dell’esercito. In collaborazione con le Farc colombiane, l’organizzazione avrebbe avuto l’obiettivo di inondare gli Stati Uniti di cocaina.

A quanto pare, dai dischi rigidi di alcuni computer scoperti durante un raid in un accampamento delle Farc in Ecuador nel 2008 sarebbero emersi presunti contatti tra il gruppo e il governo di Chávez, del quale il presidente Maduro faceva parte come ministro degli esteri. Altre accuse riguardano Vladimir Padrino López, ministro della difesa, il quale avrebbe cospirato per trasportare cocaina su aerei registrati come statunitensi dal Venezuela all’America Centrale destinati agli Stati Uniti.

“Non vi è alcun dubbio che lo stato venezuelano sia colpito dalla corruzione e infiltrato dal crimine organizzato, soprattutto dai narcotrafficanti”, dichiara Geoff Ramsaey, del centro studi Washington Office on Latin America. Eppure lo stesso Ramsaey dubita che tutte le imputazioni possano essere portate in aula, dato che in alcuni casi si basano su testimonianze di persone che hanno un chiaro interesse a favorire l’accusa. Il Venezuela non gioca un ruolo fondamentale nel mercato della cocaina. Nel 2018, secondo le stime, in Guatemala sarebbe passata una quantità di droga superiore di sei volte a quella transitata dal Venezuela.

Diversi osservatori, dunque, sospettano che Trump e la sua amministrazione abbiano più a cuore di vincere le prossime elezioni presidenziali in Florida, dove vivono molti esuli cubani e venezuelani.

Il bastone e la carota
L’atto d’accusa principale è stato elaborato per anni. Da un lato c’erano i falchi dell’amministrazione che spingevano per pubblicarlo – come il senatore della Florida Marco Rubio – dall’altro il dipartimento di stato metteva in guardia che rivelare le accuse avrebbe potuto vanificare gli sforzi per convincere i collaboratori di Maduro a tradirlo.

Gli Stati Uniti prevedono pene lievi per il traffico di droga su larga scala, nota Ramsey. Nonostante la costituzione non ammetta l’estradizione, adesso queste persone sanno che potrebbero finire in una cella a Miami se cadesse il governo venezuelano.

Forse capendo che oltre al bastone ci vuole la carota, il dipartimento di stato ha offerto un piano che suona più conciliatorio: l’assemblea nazionale venezuelana potrebbe scegliere un governo di transizione per preparare tre elezioni, seguendo una formula che permetterebbe ai legislatori chavisti di dire la loro nella composizione del governo. A guidarlo non dovrebbe esserci né Maduro né Guaidó. Le sanzioni statunitensi sarebbero ritirate e questo aiuterebbe il Venezuela ad affrontare in maniera adeguata la pandemia.

Ma nulla nel piano del dipartimento di stato risparmia a Maduro la minaccia di estradizione se perdesse il potere in seguito a delle libere elezioni. Per il momento sta approfittando del virus per riaffermare il suo potere. Ha proibito gli assembramenti e, nel bel mezzo della mancanza di carburante nel paese, ha affidato il controllo della distribuzione del petrolio all’esercito, che ora ne approfitta per far soldi al mercato nero così come già fa per i beni alimentari. Le minacce di Maduro contro Guaidó si sono fatte più pesanti. Il 30 marzo, senza nemmeno fare il nome del capo dell’opposizione, l’ha avvertito che il regime sarebbe presto andato a “bussare alla tua porta”. E mentre Maduro e Barr brandiscono le manette, la minaccia del nuovo coronavirus non può che crescere.

(Traduzione di Maria Chiara Benini)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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