23 luglio 2020 12:48

I loro bilanci non quadrano più. All’Algeria serve che il prezzo del greggio Brent, uno standard internazionale per il petrolio, aumenti fino a 157 dollari al barile. All’Oman serve che arrivi a 87 dollari. Nessun produttore arabo di petrolio, con l’eccezione del minuscolo Qatar, può far quadrare i suoi conti al prezzo attuale, che si aggira attorno ai 40 dollari al barile.

Alcuni paesi stanno perciò prendendo provvedimenti drastici. A maggio il governo algerino ha dichiarato di voler dimezzare le spese. Il nuovo primo ministro dell’Iraq, uno dei principali produttori di petrolio, vuole tagliare i salari pubblici. L’Oman sta avendo difficoltà di accesso al credito dopo che le agenzie di rating hanno classificato il suo debito come spazzatura. Il deficit del Kuwait potrebbe raggiungere il 40 per cento del pil, il livello più alto del mondo.

Il covid-19 ha fatto precipitare il prezzo del petrolio ai minimi storici perché le persone hanno smesso di spostarsi per limitare la diffusione del virus. Con la ripresa dei commerci il prezzo è risalito, anche se potrebbero volerci ancora anni per registrare un picco nella domanda.

Un assaggio del futuro
Non c’è da illudersi però. Le economie globali si stanno allontanando dai combustibili fossili. A causa della sovrapproduzione e della crescente competitività delle fonti di energia più pulite, il petrolio potrebbe continuare a costare poco anche nel prossimo futuro. Il recente sconvolgimento nei mercati petroliferi non è un’aberrazione, ma un assaggio del futuro. Il mondo è entrato in un’epoca di prezzi bassi e le regioni più colpite saranno il Medio Oriente e il Nordafrica.

I leader arabi sapevano che i prezzi del petrolio alle stelle non sarebbero durati per sempre. Quattro anni fa il principe ereditario Mohammed bin Salman, che di fatto governa l’Arabia Saudita, ha presentato un piano chiamato Vision 2030 che aveva l’obiettivo di emancipare la sua economia dal petrolio. Molti paesi vicini hanno la loro versione di questo piano. Tuttavia “il 2030 è diventato il 2020”, dichiara un consulente del principe. I proventi del petrolio in Medio Oriente e Nordafrica, che produce più liquido nero di qualsiasi altra regione, sono crollati secondo l’Fmi da più di mille miliardi di dollari nel 2012 a 575 miliardi di dollari nel 2019. Quest’anno i paesi arabi dovrebbero guadagnare circa 300 miliardi di dollari dalla vendita del petrolio, una cifra che non basta nemmeno a coprire le loro spese. Da marzo hanno tagliato, tassato e preso in prestito soldi. Molti stanno bruciando riserve di denaro liquido che avrebbero dovuto finanziare le riforme.

A soffrire saranno anche i paesi non produttori, che per lungo tempo hanno fatto affidamento sui vicini petroliferi per far lavorare i loro cittadini. In alcuni paesi le rimesse dei lavoratori all’estero costituiscono fino al 10 per cento del pil. Il commercio, il turismo e gli investimenti hanno contribuito in una certa misura a diffondere la ricchezza. E tuttavia, rispetto ad altre regioni, il Medio Oriente ha una proporzione di giovani disoccupati tra le più alte al mondo. Il petrolio ha foraggiato economie improduttive, supportato regimi detestabili e attirato interferenze indesiderate dall’estero. Perciò non è detto che la fine di quest’epoca sarà disastrosa se stimolerà riforme che diano vita a economie più dinamiche e a governi più rappresentativi.

Spese eccessive
Di sicuro ci saranno delle resistenze. Partiamo dai produttori di petrolio più ricchi della regione, che possono affrontare nel breve periodo i prezzi bassi. Il Qatar e gli Emirati Arabi Uniti possiedono enormi fondi sovrani. L’Arabia Saudita, la più grande economia della regione, ha riserve di valuta estera per un valore di 444 miliardi di dollari, sufficienti a coprire due anni di spese al ritmo attuale.

Questi paesi però sono stati colpiti duramente dalla pandemia, oltre che dall’abbassamento dei prezzi del petrolio. E per molto tempo hanno speso troppo. A febbraio, prima che l’epidemia di coronavirus esplodesse nel Golfo, il Fondo monetario internazionale prevedeva che i paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg) – Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – avrebbero esaurito i loro duemila miliardi di dollari di riserve entro il 2034.

Da allora l’Arabia Saudita ha speso almeno 45 miliardi di dollari delle sue riserve liquide. Se continuerà a spendere a questi ritmi per altri sei mesi, l’aggancio del rial saudita al dollaro andrà in sofferenza. La svalutazione colpirebbe i redditi reali in un paese che importa praticamente tutto. I funzionari sono preoccupati. “Ci troviamo davanti a una crisi come il mondo non ne ha mai viste nella storia moderna”, afferma il ministro delle finanze Mohammed Al Jadaan.

Il regno saudita aveva sperato in un aumento del turismo religioso e ricreativo. Oggi quella speranza è una fantasia

Nel tentativo di mettere in ordine i conti, l’Arabia Saudita ha sospeso un’indennità per il costo della vita riconosciuto ai dipendenti statali, ha aumentato il prezzo del carburante e ha triplicato l’imposta sulle vendite. Nonostante queste misure, il deficit di bilancio quest’anno potrebbe superare i 110 miliardi di dollari, pari al 16 per cento del pil. Potrebbero arrivare altre tasse, magari sulle imprese, sul reddito o sulla proprietà terriera. Un aumento delle tasse però potrebbe deprimere ulteriormente il commercio, azzoppato dal tentativo di contenere il coronavirus.

Il regno aveva sperato che un aumento del turismo religioso e ricreativo avrebbe almeno in parte compensato il declino dei proventi del petrolio. Oggi quella speranza appare una fantasia. La città santa della Mecca è chiusa agli stranieri da febbraio. Nel 2019 il pellegrinaggio annuale aveva attirato nel paese 2,6 milioni di pellegrini; quest’anno il limite massimo è stato fissato a mille. “Il regno è bloccato dalla stessa dipendenza dal petrolio da cui dovrebbe tirarsi fuori per sopravvivere”, afferma Farouk Soussa della banca Goldman Sachs.

Ritorno nelle piazze
Eppure, secondo alcuni lo sconvolgimento negli stati produttori di petrolio ha un lato positivo. I paesi del Golfo producono il petrolio più economico del mondo, perciò si preparano ad acquisire delle fette di mercato se i prezzi continueranno a restare bassi. Con la fuga degli stranieri, gli abitanti potrebbero occupare i loro posti di lavoro. E le lotte che serpeggiano nella regione potrebbero convincere alcuni paesi ad accelerare sulle riforme. Le agenzie di rating lodano l’aumento delle tasse in Arabia Saudita come un passo per trasformare un’economia basata sulla rendita in un’economia produttiva. Per riscuotere entrate fresche i leader arabi parlano di un’ondata di privatizzazioni. Il regno ha annunciato di recente la vendita del più grande impianto di desalinizzazione del mondo a Ras al Khair. Al momento però gli investitori sembrano più orientati a far uscire tutti i loro soldi dalla regione.

Un declino prolungato dei prezzi del petrolio manderà ulteriormente in sofferenza anche paesi arabi che non estraggono questa materia prima

Nel frattempo monta la rabbia dell’opinione pubblica. I sauditi si lamentano delle nuove tasse, il cui peso ricade soprattutto sui più poveri. “Perché Mbs non tassa i ricchi?”, si lamentano i disoccupati sui social, riferendosi al principe Mohammed con le sue iniziali. “Perché non vende il suo yatch e non si mette a vivere come noi?”, chiede una madre di quattro figli nel nord del paese, dove il principe sta costruendo altri palazzi. In Iraq funzionari governativi adirati per i tagli dei salari hanno espresso il loro sostegno a un movimento di protesta che sta cercando di rovesciare l’intero sistema politico. In Algeria, dove il reddito pro capite è sceso da 5.600 dollari nel 2012 a meno di quattromila dollari oggi, i manifestanti stanno tornando nelle piazze. I governanti della regione non possono più permettersi di comprare la lealtà dell’opinione pubblica.

Le proteste sono già ricominciate in Libano, dove la pandemia aveva momentaneamente sospeso mesi di manifestazioni contro la corruzione e un’economia al collasso. Il Libano non è un produttore di petrolio (anche se spera di diventarlo). La sua crisi, che quest’anno potrebbe vedere una contrazione superiore al 13 per cento del pil, è stata provocata dalle conseguenze di un ordine economico postbellico eccessivamente dipendente dai servizi e da un settore finanziario sproporzionato. Tuttavia il crollo economico del Golfo ha peggiorato le cose. Un declino prolungato dei prezzi del petrolio manderà ulteriormente in sofferenza anche paesi arabi che non estraggono questa materia prima.

Contratto sociale stravolto
Le rimesse dai paesi ricchi di risorse energetiche sono un’ancora di salvezza per l’intera regione. Più di 2,5 milioni di egiziani, quasi il 3 per cento della popolazione del paese, lavorano in paesi arabi che esportano molto petrolio. Per altri paesi le cifre sono ancora più alte: il 5 per cento per il Libano e la Giordania, il 9 per cento per la Palestina. I soldi che mandano a casa costituiscono una parte considerevole delle economie dei loro paesi d’origine. Al crollo dei proventi petroliferi farà presto seguito il crollo delle rimesse. Ci saranno meno posti di lavoro per gli stranieri e salari più bassi per quelli che trovano lavoro.

Questo determinerà uno sconvolgimento del contratto sociale in paesi che hanno fatto affidamento sull’emigrazione per assorbire cittadini senza lavoro. L’Egitto forniva un tempo manodopera non qualificata al Golfo. Negli anni ottanta più di un quinto dei suoi migranti che sgobbavano in Arabia Saudita era analfabeta. Oggi la maggior parte ha un’istruzione secondaria e la quota di laureati è raddoppiata. L’Egitto oggi fatica a contenere l’epidemia di covid-19 in parte perché non ha un numero sufficiente di medici: dal 2016 ne sono emigrati più di diecimila, molti nei paesi del Golfo.

Un eccesso di laureati senza lavoro è la ricetta ideale per l’esplosione di disordini sociali

Se le opportunità negli stati produttori di petrolio diminuiranno, molti laureati potrebbero non emigrare più. Tuttavia i loro paesi d’origine non possono offrirgli un buon tenore di vita. I medici in Egitto guadagnano appena tremila sterline egiziane (circa 164 euro) al mese, una piccola parte di quanto guadagnano in Arabia Saudita o in Kuwait. Un eccesso di laureati senza lavoro è la ricetta ideale per l’esplosione di disordini sociali. A questo si potrebbe aggiungere un flusso di concittadini costretti a rientrare in patria al termine dei loro contratti di lavoro. Molti non vorrebbero farlo, poiché emirati come Dubai e Qatar offrono non solo posti di lavoro ben retribuiti ma anche servizi di prima classe e un sistema di governo relativamente onesto. Secondo un sondaggio di Gallup pubblicato a gennaio, solo il 10 per cento dei migranti egiziani nelle aree più ricche del Golfo vuole tornare nel suo paese.

Anche gli affari ne risentiranno. I produttori di petrolio sono anche grandi mercati per altri paesi arabi. Nel 2018 hanno assorbito il 21 per cento delle esportazioni dall’Egitto, il 32 per cento dalla Giordania e il 38 per cento dal Libano. Le aziende possono naturalmente cercare altri partner commerciali. Già adesso l’Egitto esporta di più in Italia e in Turchia che in qualsiasi paese arabo. Tuttavia le cose che vende in questi paesi – prodotti derivati dal petrolio, metalli e prodotti chimici – tendono a creare pochi posti di lavoro per gli egiziani. I paesi nella regione acquistano una quantità maggiore di merci ad alta intensità di lavoro, come prodotti agricoli, tessili e beni di consumo. Più della metà dei televisori esportati dall’Egitto finisce nei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo. L’industria farmaceutica giordana, che genera più del 10 per cento delle sue esportazioni complessive e sostiene decine di migliaia di posti di lavoro, invia quasi tre quarti delle sue esportazioni nei paesi arabi produttori di petrolio. Paesi del Golfo ridimensionati e impoveriti avranno molti più consumatori a bassa capacità di spesa.

Avranno anche meno turisti ricchi. In Libano i turisti provenienti da tre soli paesi – Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti – rappresentano un terzo di quanto speso in totale dai turisti. La maggior parte dei turisti in Egitto proviene dall’Europa, ma i turisti del Golfo si fermano di più e spendono più soldi nei ristoranti, nei bar e nei centri commerciali. Questi paesi possono cercare altrove fonti di guadagno, ma sarà difficile sostituire i turisti ricchi nel cortile di casa. I sauditi trascorrono l’estate al Cairo o a Beirut perché queste città sono vicine, familiari da un punto di vista culturale e parlano la loro stessa lingua. È improbabile che sloveni o singaporiani facciano lo stesso.

Un incidente storico
In un certo senso gli stati del Golfo sono diventati snodi di potere e influenza nel Medio Oriente per un mero incidente storico. Per secoli sono state aree isolate che si sostentavano grazie ai pellegrinaggi e al commercio delle perle. A governare la regione erano le grandi capitali arabe dell’antichità: il Cairo e Damasco hanno combattuto contro Israele e hanno guidato le rivendicazioni del nazionalismo arabo. Beirut era lo snodo finanziario e culturale.

Per queste antiche potenze, oggi in declino, il rapporto con i nuovi arrivati è improntato a un certo disagio. In una registrazione trapelata nel 2015 il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi si prendeva gioco della ricchezza del Golfo. Diceva a un consigliere di chiedere ai sauditi dieci miliardi di dollari in aiuti finanziari, una richiesta accolta con una risata. “E perché? Scoppiano di soldi”, replicava Al Sisi con un battuta. Erano stati abbastanza generosi con il paese, seppure in modo selettivo. Dopo il 2013, quando Al Sisi ha rovesciato un governo islamista eletto dal popolo, Kuwait, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti avevano concesso all’Egitto aiuti per un valore di circa 30 miliardi.

Molti stati arabi un tempo supportati da Riyadh o Abu Dhabi, adesso sembrano pessimi investimenti

La leadership sunnita in Libano è stata a lungo cliente degli stati arabi. Rafik Hariri, che ha guidato il paese dopo la guerra civile, ha fatto fortuna come appaltatore in Arabia Saudita. Suo figlio Saad, che ha ricoperto a sua volta la carica di primo ministro, ha la cittadinanza saudita. Il Ccg ha salvato la Giordania dalla bancarotta due volte nell’ultimo decennio.

Negli ultimi anni però i finanziamenti hanno cominciato a esaurirsi. In parte questo è avvenuto per controversie di carattere politico. Dal punto di vista di Riyadh o Abu Dhabi, molti stati arabi che un tempo supportavano, adesso sembrano pessimi investimenti. I sauditi sono frustrati dal rifiuto di Al Sisi di mandare truppe a sostegno della loro nefasta invasione dello Yemen e il giovane Hariri si è mostrato troppo tollerante nei confronti di Hezbollah, la milizia sciita in parte sostenuta dall’Iran. La diminuzione della loro prodigalità riflette d’altro canto la diminuzione dei loro patrimoni. L’Egitto non riceve più soldi da anni. Nessuno dei paesi del Golfo sembra disposto a salvare dalla bancarotta il Libano. Nel 2018 la Giordania ha dovuto implorare di ricevere un pacchetto di aiuti di 2,5 miliardi di dollari in cinque anni dai paesi del Golfo, metà di quello che aveva avuto nel 2011. Non si tratta di sviluppi necessariamente negativi: molti arabi apprezzerebbero una minore influenza straniera nei loro paesi. Le pressioni finanziarie sui loro governi già indebitate però aumenteranno.

Pechino ha un ponte da vendere
Potrebbe anche prefigurarsi un cambiamento più ampio nella politica della regione. Per quattro decenni gli Stati Uniti hanno seguito la “dottrina Carter”, che prevedeva l’uso della forza militare per mantenere la libera circolazione del petrolio nel golfo Persico. Con il presidente Donald Trump, tuttavia, la dottrina ha preso a vacillare. Quando lo scorso settembre missili da crociera e droni di fabbricazione iraniana hanno colpito alcune strutture petrolifere saudite, Washington non ha quasi battuto ciglio. Le batterie di missili di difesa Patriot inviate nel regno qualche settimana dopo sono state già ritirate. Fuori del Golfo, Trump si è impegnato ancora meno, ignorando del tutto il caos in Libia, dove la Russia, la Turchia gli Emirati Arabi Uniti (tra gli altri) si stanno contendendo il controllo.

Un Medio Oriente meno centrale nella fornitura globale di energia sarà un Medio Oriente meno importante per gli Stati Uniti. La Russia potrebbe subentrare per riempire il vuoto, ma i suoi interessi regionali sono limitati, così come la sua determinazione a mantenere il suo porto sul Mediterraneo a Tartus, in Siria. Non vuole – e probabilmente non può – mettere in campo uno scudo di sicurezza che comprenda la penisola araba. La Cina ha cercato di restare fuori dalla politica regionale, perseguendo unicamente benefici economici: contratti di costruzione in Algeria, concessioni portuali in Egitto, un’ampia gamma di accordi nel Golfo.

Tuttavia, con il progressivo impoverimento degli stati arabi la natura del loro rapporto con la Cina potrebbe cambiare. Questo sta già accadendo in Iran, dove le sanzioni statunitensi hanno soffocato i proventi del petrolio. I funzionari del paese stanno discutendo un accordo di investimenti di lungo periodo in base al quale aziende cinesi potrebbero costruire di tutto, dai porti alle telecomunicazioni. Viene presentata come “partnership strategica” ma i suoi critici temono che potrebbe portare la Cina a controllare le infrastrutture che costruisce, come fa già in alcuni paesi asiatici e africani indebitati. Il declino dei prezzi del petrolio potrebbe imporre questo modello agli stati arabi e forse complicare ancora di più ciò che resta dei loro rapporti con Washington.

Se chiedete ai giovani arabi dove vorrebbero vivere è molto probabile che sceglieranno Dubai, che secondo il 44 per cento di loro, in un sondaggio del 2019, era il luogo ideale dove emigrare. Definiscono spesso la loro ammirazione facendo paragoni con i loro paesi. Con tutte le sue pecche, Dubai (e i suoi vicini) offrono qualcosa di insolito nella regione: i poliziotti sono onesti, le strade sono ben asfaltate, l’elettricità non subisce interruzioni.

Mentre crolla l’economia, in Libano tutti parlano di emigrazione. Tuttavia nel Golfo ci sono pochi posti di lavoro. “Dubai è sempre stata una via di fuga”, dice una donna. “Adesso è come se fossimo in trappola, senza un piano di riserva”. Gli stessi timori accomunano i giovani in tutta la regione. Quasi dieci anni dopo che un fruttivendolo tunisino ha acceso la miccia della primavera araba, le frustrazioni che l’aveva provocata non sono sparite. La fine dell’era petrolifera potrebbe portare a un cambiamento. Prima però porterà dolore.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

Errata corrige., 27 luglio 2020. In una versione precedente avevamo scritto che le riserve di valuta dell’Arabia Saudita sono di 444mila miliardi di dollari, mentre sono di 444 miliardi.

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