Washington, Stati Uniti, 12 maggio 2025. Al centro, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump (Nathan Howard, Reuters/Contrasto)

La conclusione dei negoziati con la Cina è stata descritta dal presidente degli Stati Uniti come una vittoria straordinaria, ma in realtà è il suo ennesimo fallimento. Com’è già successo con il Canada e il Messico, Donald Trump comincia con annunci roboanti e insulti, poi parte all’attacco con dazi sproporzionati e alla fine fa retromarcia davanti alla resistenza della controparte ma soprattutto davanti alla realtà, cioè al fatto che le sue guerre commerciali sono dannose per tutti, innanzitutto per gli Stati Uniti.

In ogni caso Trump, indomito, ora guarda già ai prossimi obiettivi e in questi giorni ha attaccato più duramente del solito l’Unione europea, che considera uno dei suoi peggiori nemici. Il 13 maggio ha dichiarato che “sotto molti aspetti è peggio della Cina. Siamo solo agli inizi con Bruxelles. Noi abbiamo tutte le carte vincenti in mano. Loro si sono comportati in modo molto scorretto con noi. Ci vendono trenta milioni di auto, noi non gliene vendiamo neanche una. Ci vendono prodotti agricoli, noi non gli vendiamo praticamente niente”.

Nel suo attacco Trump si è soffermato sul settore farmaceutico. “L’Ozempic”, ha dichiarato, “costa dieci volte di più negli Stati Uniti che nel resto del mondo sviluppato. Perché? Che abbiamo fatto?”. Per questo il 12 maggio ha firmato un ordine esecutivo con cui ordina alle case farmaceutiche di vendere negli Stati Uniti agli stessi prezzi applicati negli altri paesi. Il messaggio è indirizzato all’Unione europea e in particolare all’Irlanda, accusata dalla Casa Bianca di essersi “impossessata delle case farmaceutiche statunitensi e di sottrarre le entrate fiscali che queste aziende avrebbero dovuto pagare a Washington”.

In più occasioni Trump ha sostenuto che i bassi livelli d’imposizione fiscale dell’Irlanda hanno attirato nel paese varie multinazionali statunitensi, tra cui i colossi farmaceutici Pfizer, Boston Scientific e Eli Lilly. Oggi queste aziende guidano le esportazioni irlandesi negli Stati Uniti (arrivate nel 2024 a settanta miliardi di dollari, il 34 per cento in più rispetto al 2023), pagando tasse a Dublino per farmaci consumati oltreoceano. Invece non pagano praticamente nessuna imposta negli Stati Uniti, anche se nel paese ricavano gran parte delle loro entrate grazie ai prezzi particolarmente alti (secondo alcune stime, tre volte di più rispetto all’Europa).

Le aziende li giustificano spiegando che servono a finanziare la ricerca e l’innovazione. Per questo il segretario alla salute dell’amministrazione Trump, Robert H. Kennedy, ha invitato “gli alleati europei” ad “aumentare i prezzi e pagare la vostra quota di innovazione, che gli Stati Uniti non finanzieranno più”. Questo nuovo ordine esecutivo, in realtà, è lacunoso e agli osservatori appare di difficile applicazione. Tanto più che nella questione dei farmaci il nodo centrale riguarda la normativa fiscale statunitense e le leggi sulla proprietà intellettuale, che permettono alle multinazionali di trasferire i loro brevetti in paesi dove si pagano meno tasse. La Casa Bianca, quindi, farebbe bene a correggere alcune norme che tra l’altro risalgono alla famigerata riforma fiscale voluta dallo stesso Trump nel 2017, durante il suo primo mandato.

Con Trump il conflitto d’interessi fa parte del sistema 
Molti degli annunci e delle decisioni del presidente degli Stati Uniti sembrano dettati dalla volontà di arricchire se stesso e le persone intorno a lui. Una gestione del potere che ricorda quella dei regimi autoritari.

In ogni caso oggi l’Unione europea deve capire come rispondere, visto che agli inizi di luglio finirà la pausa di novanta giorni decisa da Washington all’ondata di dazi annunciata il 2 aprile. Lo stesso Trump, d’altronde, sostiene di aver già inviato a Bruxelles un dossier per far partire i negoziati. Ne parla in un’interessante analisi Brad Setser, economista del Council on foreign relations (Cfr), grande esperto di commercio globale e flussi finanziari. Da sempre gli Stati Uniti, scrive Setser, sono una fonte importante di domanda per l’industria manifatturiera europea: “Le esportazioni negli Stati Uniti sono fino a tre volte superiori rispetto a quelle in Cina”.

Questa domanda non è facilmente sostituibile con quella di altri paesi, neanche con una grande economia in ascesa come l’India. Per non parlare della Cina che, come l’Europa, è soprattutto un’esportatrice. Probabilmente la vera alternativa l’ha indicata Mario Draghi nel suo rapporto presentato di recente alla Commissione europea, spiega Setser: un mercato interno europeo più forte in grado di assorbire più domanda, tenendo conto che già oggi “l’Unione europea dipende dalle esportazioni nel resto del mondo molto meno della Cina.

Tutto ciò, continua Setser, non vuol dire che l’Europa non debba rispondere a Trump. Bruxelles dovrebbe colpire con dazi mirati ad alcuni settori importanti per gli Stati Uniti, ma soprattutto dovrebbe cominciare a eliminare le condizioni che spingono le multinazionali a “trasferire” i loro profitti da una sponda all’altra dell’oceano Atlantico. Per esempio in Irlanda nel caso del settore farmaceutico: “I cento miliardi di importazioni statunitensi dall’Irlanda contribuiscono enormemente al deficit bilaterale di Washington”.

Un aumento delle imposte sui profitti delle case farmaceutiche da un lato “potrebbe ridurre drasticamente il surplus commerciale europeo” e tranquillizzare quella parte degli Stati Uniti che va dietro le teorie di Trump e dall’altro farebbe emergere una realtà spesso ignorata: cioè che, come ha notato il premio Nobel Paul Krugman, “una porzione significativa delle importazioni statunitensi dall’Europa è artificiale, perché avviene a prezzi gonfiati dal trasferimento dei profitti per motivi fiscali”.

L’Unione europea, tuttavia, può aspirare a relazionarsi da pari a pari con gli Stati Uniti e le altre potenze globali solo se saprà agire come un blocco coeso e omogeneo. Questo non vale solo nel campo strettamente economico ma anche in quello della difesa, dov’è destinata a perdere la tradizionale protezione di Washington ed è costretta ad affrontare da sola le crescente minaccia russa sui suoi confini orientali. Il problema, come spiega Bloomberg, è “la mancanza di volontà e ambizione” della sua classe dirigente. La vera debolezza dell’Europa, in definitiva, non sono gli squilibri commerciali ma le divisioni interne tra paesi che pensano con la logica nazionale, trascurando colpevolmente il fatto che procedendo in ordine sparso si rischia di restare schiacciati tra i giganti.

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